Un insolito caffè

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LETTERA INCISA SULLE TAVOLE DEI VOSTRI CUORI

2 CORINZI 3,3

 

 UN INSOLITO CAFFE’

Picture made by Alejandra Sazo

 

Quante volte Gli sono passata accanto senza salutarlo, senza mostrargli un piccolo gesto di considerazione… tante! Lui, sempre educato nei suoi modi, disposto ad offrire un sorriso dignitoso anche quando non c’è molto per cui gioire in una vita che lo ha messo già a dura prova. Lui: un immigrato, scuro di pelle, inconfondibile con il suo berretto giallo sempre proteso verso la gente, mai invadente.

In una giornata come tante altre, decido di spostare una pedina e fare la prima mossa. Quel giorno sembra essere ideale: i bambini a scuola, la mattinata libera e l’animo disposto a raccogliere la storia di una persona sino a quel momento sconosciuta che incontro ormai da un anno alle porte d’entrata d’un piccolo centro commerciale della zona.

“Ciao, come stai, mi chiamo Martina, perché non andiamo a prendere un caffè assieme?”. Io, diretta ed essenziale; lui accetta l’invito con il solito garbato sorriso: non sembra sorpreso, soltanto felice per quell’inconsueta richiesta avanzata da una persona locale, una donna che quel giorno ha scelto di non guardare oltre e di fermarsi almeno un’ora soltanto con lui, per ascoltare un pezzo della sua vita ed attutire la sua percettibile solitudine.

Ed è così che conosco Anayo –  uso uno pseudonimo per tutelare il suo privato – nativo della Nigeria e, più precisamente, dello stato di Enugo, poiché, come m’illustra lui al pari d’un professore di geografia, in Nigeria vi sono ben 36 stati e una capitale, Abuja. Lo fisso con meraviglia: parla un inglese accurato, espone con fierezza la sua provenienza, e apprendo presto che si è laureato in Arte e Grafica. Presenta con orgoglio i suoi dipinti e sullo schermo del cellulare vedo passare in rassegna, una ad una, le immagini delle sue sculture e d’incantevoli ritratti ad olio su tela, gli unici che è riuscito ad immortalare prima di lasciare il suo Paese. Mi racconta, con un accenno d’emozione, il suo lavoro d’artista nel modesto locale adibito a Studio d’Arte vicino alla casa dove viveva con la madre, il padre ed il fratello minore. Questo, prima che un turbinio d’eventi gli portasse via in una folata di vento, tutto ciò che aveva di più caro.

La sua casa ora è l’Italia e in questa terra si sente protetto. Mi spiega che il Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza, qui, tutela le persone e lo Stato garantisce la sanità, o almeno i primi soccorsi, a chiunque. Io mi limito ad ascoltare, non pongo ulteriori domande perché Anayo è come un fiume in piena: i suoi occhi, la sua voce, le sue mani che gesticolano, tutte le fattezze del suo corpo richiamano ad una profonda compassione verso un uomo, poco più che trentenne, che sta rievocando le pagine della sua vita di fronte ad una sconosciuta. Gradualmente le sue parole delineano un ritratto su tela che verrà squarciata dalla lama d’un feroce atto di crudeltà.

Stiamo lentamente arrivando a quella mattina, una delle tante in terra africana, dove lui si svegliava con sua madre ed il fratello, mentre il padre era già partito per recarsi sul posto di lavoro. Poi, tutti e tre insieme camminavano verso la chiesa al rintocco della sesta ora per assistere alla Messa. Un rituale quotidiano, condiviso da molti del luogo, che sembra essere la normalità d’un cristianesimo vissuto ed incarnato nella sua pienezza, molto distante dalle nostre domeniche assonate dove la partecipazione alla S. Messa sembra essere divenuta, tutt’al più, una ben consolidata abitudine.

Ritorniamo adesso nella piccola cittadina di Enugu in Nigeria, e proviamo ad ascoltare la veloce e pesante andatura dei guerriglieri musulmani che avanzano: immaginiamo la scena soffocante e piena d’affanno, nel momento preciso in cui tutti i presenti alla Messa odono il fragore d’una bomba esplosa al di fuori delle mura ecclesiali, e s’interrogano, sgomenti, sul da farsi, mentre le porte della chiesa si spalancano sull’inferno in strada, dove ognuno corre in direzioni contrapposte nella speranza di mettersi in salvo e, nel subbuglio più totale, si scorgono i corpi riversi a terra delle persone colpite.

Anayo, in questo tragico scenario, perde di vista sua madre ed il fratello e inizia a correre anch’egli, verso l’ignoto. Un lungo tragitto l’attende, un intero giorno di cammino che lo porterà di nascosto nel bosco, ad attraversare il confine verso lo stato repubblicano del Niger, nella notte più buia e triste della sua vita.

Qui attende tre mesi, vuole conoscere quale sorte sia toccata alla sua famiglia, eppure, la notizia tanto attesa, non giungerà alle sue orecchie fino a quando non avrà messo piede in terra straniera. Le condizioni in cui è costretto a vivere non sono delle migliori, per tanto decide di proseguire verso lo Stato della Libia. Là si guadagna da vivere lavorando in un autolavaggio, ma anche in Libia il clima è teso e le sopraffazioni sono all’ordine del giorno, ed una notte, senza alcun preavviso, assieme ad una “manciata di altre persone”, Anayo viene scortato e costretto a salire a bordo d’una pericolante imbarcazione che lo condurrà fino alle coste della nostra Sicilia.

Qualcuno non abituato a simili storie, potrà forse ritenere che il suo racconto sia stato volutamente alterato in alcune delle sue parti, magari per muovermi a pietà ed assicurarsi chissà quali agevolazioni! I miei lunghi anni di volontariato al Centro d’Ascolto Caritas, tuttavia, mi hanno svelato storie molto simili alla sua: uomini e donne provenienti da altri stati africani dove la vita è ancora a rischio, in una Terra così fortemente travagliata.

Solo più tardi, da una chiamata internazionale, Anayo apprenderà che sua madre e suo fratello vivono ora a casa di una zia in una zona decentrata rispetto alla cittadina di Enugu, e pertanto, sono maggiormente al riparo da future rappresaglie terroristiche; conoscerà, purtroppo, anche l’amara verità: suo padre è morto durante l’attacco, mentre conduceva il bus di linea che tutt’ora accompagna le numerose persone che dal centro cittadino si recano giornalmente verso la capitale della Nigeria.

“Ho intenzione di ritornare nel mio Paese quando avrò abbastanza soldi e portare la mia famiglia via con me… vorrei che fossero al sicuro”: “This is my plan for now!”.

Sì, questo è il suo progetto, il suo sogno, una speranza che non voglio smorzare con le voci abituali che si alzano, non di rado, quando si parla d’immigrazione di massa, discorsi che non fatico a comprendere, quando in Italia, manca una vera e propria pianificazione sociale: strutture idonee per l’accoglienza degli stranieri, un piano regolatore per il lavoro correttamente retribuito per tutte quelle persone che fuggono da situazioni sfavorevoli e che hanno diritto di trovare assistenza ed una nuova possibilità di vita nel nostro Bel Paese.

Purtroppo, la crisi attuale, la perdita del lavoro per molti capofamiglia, la mancanza di speranza e prospettive, hanno affievolito anche le attese degli italiani, i quali, intravvedono nello straniero una ulteriore limitazione alla loro sofferta precarietà economica e collettiva.

Per una volta, però, domando a voi e a me stessa che sia il cuore a guidare la ragione: se Anayo fosse figlio vostro, o mio, od un vostro fratello, saremmo ancora pronti a scagliare la prima pietra, oppure la lasceremmo cadere senza voltarci indietro?

Io appartengo all’unica razza che conosco, quella umana.
[Albert Einstein]


Articolo realizzato da Martina Castellarin

Published by
Stefania Meneghella