Sta per arrivare su Rai Play la docuserie Oltre il Cielo, ambientata nel carcere minorile. Ecco la testimonianza di un’educatrice.
Si tratta di un progetto che unisce cuore e mente, e che porta ancor di più alla consapevolezza di quanto sia importante sognare. E cercare di diventare la persona che si è sempre voluta essere. Vivere dietro le sbarre non è semplice, e non lo è nemmeno uscire e ritrovare la tanto attesa libertà. Ci si sente perduti, e quasi si cerca di cadere ancora. Allora è bene armarsi di tutto quello che non si è ancora conosciuto e ricominciare a vivere, con una forza e un coraggio che solo chi ha sofferto e tremato può conoscere davvero.
In questo nuovo progetto Rai i protagonisti sono i “ragazzi dietro le sbarre“, ma che sono diventati pian piano i “ragazzi che sognano“. E che cercano di cambiare, pur inconsapevolmente.
La testimonianza dopo l’uscita di Oltre il Cielo
Da oggi sono disponibili su Rai Play le otto puntate di Oltre il Cielo, la docuserie divisa in otto episodi e prodotta da Pepito Produzioni per Rai Contenuti Digitali e Transmediali, in cui vengono svelate le fasi di recupero di alcuni ragazzi detenuti nelle carceri minorili Beccaria di Milano, Fornelli di Bari e nella comunità Kayros di Vimodrone. Il lavoro è stato realizzato in collaborazione con il Ministero della Giustizia, il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, con la regia di Alberto D’Onofrio. Si parla quindi di come si viva al di là delle sbarre e di come ogni ragazzo abbia una vita fatta di disagi e abbandoni, comportamenti devianti, furti, spaccio, rapine, aggressioni, risse, tentati omicidi. Un’educatrice, che ha lavorato in passato nell’ambito penale minorile, ha lasciato per noi una testimonianza anonima (completamente riscritta) che dà l’idea di quanto sia importante per i giovanissimi – oggi dietro le sbarre – continuare a sognare e a sperare la libertà.
Mi sembra così difficile pensare a quello che ho sentito tra quelle quattro mura, in quei momenti, ma è senz’altro impossibile immaginare quello che non ho visto con i miei occhi e che invece, i miei ragazzi, hanno vissuto in prima persona. Sono momenti che si vorrebbero rimuovere, ma a volte diventano attimi che restano impressi e attaccati a una parete senza confini e che perde spesso i suoi spigoli più preziosi per paura di cadere. Ho visto tanti fallimenti, in quegli anni, e ho visto anche tanti piatti, lotte, ingiustizie che continuano a rinnovarsi giorno dopo giorno. Credevo di non essere importante, quando ho iniziato quel percorso, e credevo di essere fragile. Credevo che le mie mani non avrebbero mai stretto la mano di qualcun altro, e poi mi sentivo importante e spesso estranea.
Quando varcavo quella porta ogni giorno, non vedevo colori in quel momento. Giorno dopo giorno, ho però conosciuto persone che andavano al di là del semplice vivere, e che sopravvivevano. Pian piano sono diventata spugna e ho assorbito le loro paure, i timori delle loro vite deboli, confidenze dette di nascosto, sguardi indiscreti, guerre, lotte, la ricerca della pace. Nonostante non lo si immagina, la pace era ovunque in quei posti ed era nei loro sguardi sempre alla ricerca di qualcosa. “Ma cosa?”, gli domandavo spesso. Loro non rispondevano mai, se lo chiedevano internamento, mi voltavano le spalle e andavano via.
Ci ho messo tanto a comprenderli, a capire che la loro era difesa e che quella difesa andava protetta più di qualunque altra cosa. Varcavo quei cancelli ogni giorno e, ogni giorno, andavo via con una consapevolezza in più: che in quelle vite, spesso in conflitto tra loro e nate sulla sabbia, c’era molto di più di quello che riuscivo a vedere. C’era una luce speciale che nemmeno loro avevano mai visto. Vivere con loro mi ha resa felice perché mi hanno donato il diritto di proteggerli e tendere loro la mia mano, superando così il rischio di passare in un altro confine per compiere – insieme – viaggi inaspettati. I loro gesti mi hanno portato ad immaginare nuovi mondi e nuove storie, sempre in procinto di crescere e sempre con lo stesso desiderio di libertà.