Ho camminato verso il solito viale, con la consapevolezza che qualcuno mi prendesse per mano e mi portasse verso la strada della verità. Cercavo la verità, questa mattina; la stessa verità che con tutta la mia forza avevo rincorso da bambina, la stessa verità che cercavo quando, un giorno, nell’aula della mia scuola, mentre decine di infantili occhi mi fissavano e la maestra era pronta per trasformarmi in voto, io leggevo il tema che mi aveva assegnato. “La mia famiglia”, si chiamava; io l’avevo guardata e lei non se ne era accorta. L’avevo guardata e avevo tremato. Il tema l’avevo svolto come tutti i bambini che sarebbero tornati a casa e avrebbero trovato l’abbraccio della mamma, come tutti i bambini che sarebbero usciti dall’aula e avrebbero visto gli occhi del papà, come tutti i bambini. Ma io non ero tutti i bambini; io ero io, e nessuno se ne era accorto. Così, ero stata costretta a mentire, quel giorno; ero stata costretta a raccontare una me che in realtà non avevo mai conosciuto. Avevo scritto tutto ciò che di solito i bambini scrivono: “Mia madre fa la casalinga, mio padre l’impiegato, ho due fratelli e siamo tutti felici!”. Ma io non ero felice! Non ero felice e nessuno se ne era mai accorto; nemmeno la maestra che, quel giorno, mi aveva guardato e aveva sorriso trasformandomi nel voto più alto, aspettandosi un mio sguardo di gioia, aspettandosi che io sarei tornata a casa urlando:“Mamma, ho preso un bel voto!”. Io non avevo una mamma; forse una mamma non l’ho mai avuta. Forse non sono nemmeno nata; forse non esisto nemmeno ora che una strada non riesco a trovarla. Forse… forse… ho trascorso la mia vita costellandomi di forse, costellandomi di dubbi, paure, incertezze. La mia vita è un’incertezza. E’ un’incertezza anche guardarmi allo specchio e immaginare a chi somiglio di più; pensare a come potrebbero essere gli occhi del mio papà o il sorriso della mia mamma. Mia madre non mi ha mai sorriso; mio padre mai mi ha guardato negli occhi. Ho trascorso tutta la mia infanzia ad ascoltare urla, porte che si chiudono, spalle che camminano in altre direzioni. Ma io una direzione non l’ho mai avuta; non l’ho mai avuta e a loro non è mai importato. Mi chiudevo nella mia stanza fatta di stelle e immaginavo la Luna; la guardavo e le parlavo: era l’unica che mi ascoltava davvero. Le parlavo mentre la donna che mi ha creato rientrava la notte; portava sempre vestiti troppo corti e urlava, quella donna, urlava e non riusciva a star zitta. Ed io non riuscivo a star zitto. Lei urlava, io parlavo alla Luna. E gridavo anche io, mentre lei urlava. E si creavano urla e grida che sorgevano improvvisamente, e non avevano la forza di tramontare. Accadeva solo quando la voce di colui che mi ha creato rompeva bottiglie di vetro, e aveva una voce strana, la voce di chi non si era mai conosciuto, di chi non mi aveva mai conosciuta. Allora, con le mie mani ancora piccole, coprivo le orecchie per non sentire, e poi gli occhi per non guardare.
Li chiudevo, sognavo.
Sognavo e la vita mi sembrava cielo, quel cielo di cui era fatta la mia stanza, quel cielo di cui ero fatta io e nessuno se ne era mai accorto. Vivevo di giorno solo per poter raggiungere la notte, solo per poter sognare una mamma che mi preparava biscotti al cioccolato, o un papà che mi abbracciava.
Io ridevo, nei sogni.
Ridevo con loro, ridevo di quello che la vita poteva offrire, di quello che loro potevano offrirmi. Poi, quando la Luna calava, mi svegliavo e diventavo di nuovo io, diventava di nuovo incubo la mia vita. E allora smettevo di ridere e iniziavo a piangere;
piangevo e nessuno se ne era mai accorto.
Nessuno si accorgeva mai di niente, ed io ero sola.
Ero sempre stata sola.
Ero sola anche mentre nascevo, figlia di una donna mai diventata mamma. Ero sola quando ero costretta a raccontare che quei lividi che mi coprivano il volto erano lì perché ero caduta, e alcuni ci credevano. Non mi capiva nessuno, nessuno aveva mai capito. Nessuno, tranne la nuova maestra che un giorno entrò nell’aula, quando iniziai la quarta elementare. Non era del mio paese, forse non era nemmeno di questo mondo. Forse l’aveva mandata Dio per starmi accanto, o forse era il mio angelo custode. La mia vita continuava ad essere costellata di forse. Continuavo a cercare la verità, quel giorno; i nuovi lividi stavano pian piano svanendo da una pelle che aveva già vissuto tanto, ed io era appoggiata al vetro della finestra a fissare il Sole. Non potevo parlargli; era giorno, e io odiavo il giorno. Lo fissavo mentre pensavo, lo fissavo mentre cercavo, quando sentii improvvisamente una voce, era la voce di chi credeva. “Cosa cerchi?”, mi disse questa voce. Aveva occhi azzurri, aveva due diamanti negli occhi, aveva il mare dentro. E’ stata la prima persona che ho guardato, è stata la prima persona che mi ha sorriso. Nei giorni successivi, mi disse che avrebbe voluto parlare con i miei genitori. Io non avevo genitori, io non ero tutti i bambini, io ero solo io. <<Lavorano, non possono venire >>, sussurrai allora. <<E’ impossibile lavorino tutti i giorni, a me basta parlare anche con uno solo, mamma o papà, ho così tanta voglia di conoscerli>>. Le promisi che avrei fatto il possibile, ma dentro di me sapevo che il possibile non l’avrebbero fatto loro. A casa, provai a parlare con la donna che mi ha creato. <<Non posso perdere tempo con queste sciocchezze>>, mi rispose. E alla maestra dissi che avevamo avuto un problema in famiglia, e per il momento non potevano parlarle. Lei mi guardò e mi accarezzò il volto. Solamente più tardi, capìi che quella donna era stata l’unica ad accorgersi delle mie lacrime versate di nascosto, dei miei lividi che non erano di semplici cadute, della mia ricerca di qualcosa che non era mai arrivata. Si susseguirono giorni leggeri e pesanti, giorni di vita e di continua ricerca, giorni in cui avrei voluto scappare e giorni in cui avevo paura di farlo, fin quando un giorno arrivò una lettera. Fu mio padre a leggerla; la lesse e mi guardò con occhi infuocati. In quel momento, mi sentii più sola che mai. Più tardi capì che era stato il Tribunale dei minori a spedirla, e che quella lettera avrebbe rappresentato la mia salvezza. La mia routine allora cambiò: mi recavo spesso in un luogo che non conoscevo ma che sentivo mio; aveva mura bianche ed io avevo sempre amato il bianco. Le persone al suo interno avevano tutte gli stessi diamanti negli occhi, lo stesso mare profondo in cui potermi tuffare ed essere chi avevo sempre sognato di essere.
E mi parlavano, quelle persone.. mi parlavano e mi credevano e mi ascoltavano ed io ero felice, in quel luogo.
Ero felice e tutti se ne accorgevano.
Ci andavo sempre più spesso; vedevo loro più dei miei genitori. Mi avevano salvato dalle urla, porte che si chiudevano, spalle che camminavano in altre direzioni. Ero solo una bambina. Ero sempre stata una bambina, e nessuno se ne era mai accorto. Ma non in quei giorni.. trascorsi la mia vita in quei giorni, trascorsi i miei sogni in quei giorni e non avevo bisogno di attendere la notte. Giurai a me stessa che non l’avrei più attesa, soprattutto quando il mare mi venne incontro e, per la prima volta, conobbi una meravigliosa sirena. Aveva i capelli lunghi e due diamanti negli occhi; mi sorrideva quando parlava e mi guardava negli occhi. E quando i suoi occhi incontravano i miei sentivo di essere a casa; le urla svanivano, le porte si aprivano, le spalle divenivano cuori, ed io ero felice. Da quel momento in poi, avrei trascorso sempre più tempo nella casa della sirena e della sua famiglia. Suo marito aveva lo sguardo di chi aveva sempre amato, e suo figlio l’anima di chi immaginava e sognava. Io ero una di loro. Me lo sentivo. A volte, ero costretta ad incontrare coloro che mi hanno creato, con la presenza di quella che, in seguito, avrei chiamato assistente sociale. Erano incontri basati su rituali e pregiudizi, incontri che avrei voluto terminare; poi tornavo a casa, ed era casa mia, era la casa che avevo sempre cercato e sperato. Fu solo allora che iniziò la mia vita.
Ora ho 35 anni e oggi ho camminato verso il solito viale, verso il solito percorso per cui sono stata destinata; ero sola. Ero in quella parte di mondo che crede, ero nel silenzio che la vita mi aveva portato a conoscere, portavo due brillanti negli occhi. Ed erano così azzurri, quei brillanti, così azzurri come un mare che non smette di perdersi e ritrovarsi, come un’anima che non smette di tuffarsi e diventare la persona che è sempre stata. Ho camminato verso il solito viale, con la consapevolezza che qualcuno mi prendesse per mano e mi portasse verso la strada della verità. Cercavo la verità, questa mattina; la stessa verità che con tutta la mia forza avevo rincorso da bambina.
La verità è proprio qui, è proprio qui dinnanzi a me. Mia figlia Ania mi corre incontro urlando: <<Mamma, ho preso un bel voto!>>. Io la sollevo da terra, la guardo negli occhi, poi le sorrido e la abbraccio.
<<Bravissima, dove?>>
<<In italiano, la maestra ci aveva assegnato un tema sulla famiglia>>
<<E tu cosa hai detto della tua famiglia?>>
<<La verità>>
<<Qual è la verità?>>
<<La verità è che siete la miglior famiglia del mondo>>.
Io la guardo e il mio sorriso diventa oro.
<<Mamma>>, mi dice ancora.
<<Dimmi>>
<<Ti voglio bene>>.
Quella frase mi entra nell’anima, e il mondo diventa per me migliore.
Perché può accadere di perdere le speranze; a volte, non si crede più in quegli occhi infantili che fissano e sono alla continua ricerca, a volte non si crede più. Ma il mondo diviene migliore solo quando un bambino ci viene incontro e ci sorride.
E voi, genitori che urlate, che sbattete porte, che voltate spalle, genitori che non guardate, che non ridete.. voi, genitori che create vite e non le curate .. Quando smetterete di guardarvi allo specchio e vedere solo il vostro riflesso?
Non ci sono sguardi, non ci sono parole, non ci sono regole.. Dovete solo guardare negli occhi vostro figlio come se fosse l’unica cosa bella che esista al mondo.. e, vi giuro, sarà poi un niente la felicità.
Articolo realizzato da Stefania Meneghella