Esistono pochi scrittori in grado di restare nell’eternità di ogni cosa, e tra questi non può mancare Giacomo Leopardi.
Il suo volto lo abbia visto spesso sui libri di scuola, grazie ai quali abbiamo potuto studiare il suo operato e i suoi lavori sempre così intensi e carichi di significato. Leopardi non basta però studiarlo tra i banchi, ma serve – necessariamente – guardarlo negli occhi e capirlo. Se solo si riconoscono le paure, i timori e le fragilità del poeta, si può senz’altro comprendere quello che ha sempre voluto dirci. Quello che continua a dire, nonostante siano trascorsi anni – apparentemente secoli – dalla sua morte.
C’è una poesia, importante per tutti noi, che è diventata tra le più amate di sempre e che ha rappresentato – appunto – l’infinito. Il per sempre, per la prima volta.
Chi era Giacomo Leopardi e cosa significa L’Infinito
Nato nel 1798 nel piccolo borgo dello Stato Pontificio di Recanati (Marche), Leopardi è cresciuto in una famiglia nobile, ma ha vissuto tutta la sua infanzia e adolescenza nella grande biblioteca paterna che lo ha aiutato ad approcciarsi al mondo dei libri e delle parole. Lì ha appunto appreso il latino, il greco, l’ebraico, ma ha anche iniziato a leggere i grandi classici e gli autori più moderni. In lui si manifesta però, quasi subito, un certo scetticismo nei confronti del suo borgo d’origine e anche del padre, il Conte Monaldo.
Nel 1819 tenta anche la fuga e, in quella occasione, scrive la poesia L’Infinito che rappresenta il suo modo di evadere dalla città per rifugiarsi in un luogo fatto di pace e serenità.
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Questo lavoro poetico è appunto stato composto nel 1819 ma è stato pubblicato solo nel 1825, sulla rivista milanese Il Nuovo Ricoglitore. Leopardi parte quindi dalla descrizione del paesaggio, del colle solitario e della siepe che non permette di guardare l’orizzonte lontano. Ha così luogo un viaggio introspettivo nel pensiero del poeta che riesce, grazie alla sua immaginazione, ad entrare in contatto con l’infinito lasciandosi completamente trasportare da esso. La poesia – che nel 2019 ha compiuto 200 anni dal suo componimento – ha dimostrato di saper parlare all’uomo contemporaneo con un coraggio senza eguali, lo stesso che si aveva due secoli fa. La poesia è inoltre ambientata sul Monte Tabor, posizionato vicino al Palazzo Leopardi e che è oggi diventato un parco.