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Michael Maggi, dalle corse in skate al set hollywoodiano: “Così è cambiata la mia vita”, l’attore di Those About to Die si racconta

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Michael Maggi ha un solo obiettivo in mente: vivere di recitazione come ha sempre fatto. Nato a Milano, ha alle spalle già numerosi film.

Il giovane interprete è infatti apparso in diversi progetti e ha raggiunto importanti traguardi. Si ricordi ad esempio della serie Sky Blocco 181 e anche della produzione Another End. Il suo volto è però apparso di recente nella famosa serie americana Those About to Die, un progetto che vede come protagonista il magico attore hollywoodiano Anthony Hopkins.


Sei giovanissimo ma hai avuto già tante esperienze nel mondo del cinema. Ricordi com’è avvenuto il tuo primo approccio alla recitazione?

Tutto è successo quando avevo 12-13 anni. All’epoca andavo sempre in skate con dei miei amici in stazione centrale, che era una zona non proprio bella della città. Non lo dicevamo ai nostri genitori perché in quel luogo c’era molta tossicodipendenza ed era una situazione particolare e, uno di quei giorni in cui mentii a mia mamma e mio papà, si avvicinarono una ragazza e un ragazzo sui 30-35 anni e mi proposero di interpretare il ruolo del protagonista nel loro prossimo videoclip musicale. Non era proprio il contesto migliore, dato che era in tutta quella situazione due sconosciuti mi si avvicinarono e all’inizio non credetti molto alle loro parole.

Quello che mi ha convinto è stato senz’altro il fatto che entrambi hanno cercato di avere un contatto con i miei genitori. Mio padre era molto titubante, perché era venuta fuori anche la verità di dove fossi. Fu quella la mia primissima esperienza.

Da quel momento cosa è cambiato?

Tantissimo, è cambiato tutto. Quella esperienza è stato per me un approccio del tutto spontaneo al mondo della recitazione, perché non avevo informazioni e non sapevo nulla né teoricamente né praticamente, se non quello che ho sempre visto fare in tv. Rispetto a questo, mi piacerebbe pensare che sia migliorato, ma tutta quella istintività e quel fidarsi è qualcosa che negli anni ho cercato di recuperare con la pratica. Spero che il mio stile sia migliorato, anche perché dopo quella esperienza ho iniziato a studiare seriamente.

Mi sono iscritto alla prima scuola, poi mi sono trasferito a Roma per tornare a Milano e continuare gli studi. Adesso sto ad esempio ancora studiando, e al momento frequento il laboratorio di Alessandro Prete. La recitazione ha sicuramente cambiato la mia vita, perché è diventata la mia chiave di lettura su tutto. All’inizio ero molto spaesato, oggi so cosa amo e so qual è la mia direzione. La recitazione mi ha dato un punto fermo, e riparte tutto sempre attraverso quello. Tutto viene filtrato dal mio animo di attore, e penso che tutto quello che sono adesso sia una conseguenza della recitazione.

La tua prima esperienza lavorativa è stata in Blocco 181. Qual è il ricordo più bello che hai di quel progetto?

Mi ha dato sicuramente una prospettiva molto chiara di un set grosso italiano, dato che era una produzione Sky che è molto importante. Mi è stato fondamentale capire quanto sia importante avere dei colleghi bravi che creano un clima positivo e sano di lavoro. Io girai con Anna e Alessandro Piovani, due attori spettacolari che mi hanno lasciato tanto anche a livello umani. Ho compreso quanto sia fondamentale il contesto e l’umanità con cui ci si presenza a lavoro, e quanto di per sé il mestiere è molto più veloce e reattivo rispetto alla percezione che ha il pubblico. Ad avermi aiutato molto è stata appunto la bravura dei colleghi, ma anche la rapidità con cui abbiamo girato e la semplicità con cui si è creata la dinamica.

Sul set è tutto così veloce, pratico, pragramatico che entrare ed uscire dal set è molto più sano. A volte dipende dalle scene: ci sono quelle in cui ho bisogno del mio spazio e restare nel mio mondo, e altre in cui ho bisogno di staccare dal personaggio completamente perché mi fa uscire molto dalla mia testa e mi obbliga a rimanere nel qui e ora. In queste occasioni, quando giro, riesco insomma a ritrovare quella elasticità e freschezza che mi serve.

Sei un personaggio della serie tv Those About to Die con Anthony Hopkins. Com’è avvenuto il tuo primo provino?

Il provino è venuto fuori quasi a caso, ero da Michela Forbicioni, la casting manager della serie. Era un altro provino inizialmente, lei mi guarda e mi propone di preparare una scena in soli 2 minuti, senza svelarmi né produzione né casting. L’universo ha voluto che fosse una scena proprio bella e anche semplice. Entro, faccio quella scena, un mese dopo mi richiamano e mi chiedono di vedermi per il personaggio di Rufus. Di lui non avevamo ancora nessuna chiarezza né contesto storico. Faccio questo altro provino, e dopo circa 3 mesi di silenzio – durante i quali avevo ricevuto solo una telefonata in cui mi era stato detto: “Sei la prima scelta di Roland Emmerich” – mi arrivò un’altra chiamata e fu follia totale. Questo episodio è successo in un momento particolare della giornata: io avevo un’azienda in cui ripulivo gli immobili dopo gli incendi per riqualificarli e, quel giorno, ero sotto la pioggia e con il mio socio pulivo delle piattaforme sporche di vernice. Mi è stata data questa notizia e ho iniziato a urlare e correre per tutto il cantiere.

Cosa ti ha lasciato più di tutto il ruolo di Rufus e cosa ti ha insegnato?

Rufus mi ha insegnato – ad un livello molto profondo – di non giudicare, mi ha fatto sentire molto sbagliato nei confronti degli altri, mi ha fatto rivalutare i miei comportamenti e la mia prospettiva sul giudicare gli altri. Non puoi pensare di capire qualcuno perché hai visto uno spiraglio della sua vita. Rufus è una persona che è veramente molto distante da me: mi sono dovuto concentrare sul non giudicarlo, mi sono connesso con le sue insicurezze e debolezze.

Ho pensato: “Se non avessi avuto l’esempio che ho avuto io, che tipo di uomo sarei in un contesto del genere?”. Non sono nella condizione di poterlo giudicare: non sono dipendente, non sono giocatore, e quindi come posso capire? Sono quindi entrato in questa sorta di empatia con Rufus e ho pensato a cosa deve aver passato per arrivare a fare una cosa del genere al figlio e alla mamma. Rufus non è cattivo, ma solo molto debole e ha questa voglia di sopravvivenza che lo porta a fare delle cose particolari.

Quali sono stati i tuoi punti di riferimento in questo percorso?

Da quando ho iniziato a studiare – verso i 13 anni , avevo questo insegnante che si chiama Roberto Fossati, che mi ha introdotto alla base. Penso che dai 14 ai 17 anni ogni mia singolo performance sia stata una terribile imitazione di James Dean. Ero ossessionato dalla qualità umana, di sensibilità che avevano lui e Marlon Brando. Quest’ultimo è sempre stata per una figura gigantesca, come anche Dustin Hoffman e Al Pacino. Nel mondo attuale, considero invece Meryl Streep la più grande attrice della storia. Mi piacciono però anche Helen Mirren e Jessica Chastain: c’è un universo di donne spettacolari. Di giovani più vicini alla mia generazione, io sono invece un grandissimo fan si Shia LaBeouf e penso che sia un fenomeno.

Futuri progetti?

Mi piacerebbe molto ma non posso, nel futuro prossimo ci sono dei progetti ma per il momento non posso per il momento rivelare nulla.

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