Non ha strade, la mente. Non ha direzioni, né regole. Vaga liberamente in una stanza buia, sperando che una luce la prenda per mano e la conduca in vicoli sempre più difficili da trovare.
La vita di Sabina Spielrein è la vita di tutti noi, e la sua anima fatta di amori e coraggi è proprio qui, su queste pagine bianche, mentre parole nere colmano vuoti incolmabili.
Figlia di un ricco commerciante ebreo, Sabina nasce nel 1885 a Rostov, primogenita di quattro fratelli e, dopo la morte di una sorella, unica figlia femmina. La sua esistenza potrebbe risultare apparentemente tranquilla se solo nel suo inconscio non si fossero costituiti piccoli tasselli di malessere che la porteranno in seguito a soffrire di isteria. Da bambina, verso il terzo e il quarto anno di vita, Sabina comincia a trattenere le feci impedendo la defecazione anche per due settimane; il suo mondo comincia così a ruotare attorno alla funzione anale, soprattutto quando successivamente in lei si sviluppa un’intensa attrazione sessuale verso il padre, che si manifesta alla vista delle sue mani. La situazione peggiora con il trascorrere del tempo quando, verso i diciotto anni, non riesce più a sostenere lo sguardo di alcun individuo. Nonostante questi gravi problemi psichici, Sabina riesce ugualmente a frequentare con profitto un liceo femminile, diplomandosi a pieni voti. Conseguita la maturità, i genitori decidono di condurla a Zurigo, presso l’ospedale psichiatrico di Burgholzli, perché potesse essere curata.
La vita di Sabina Spielrein è la vita di tutti noi.
Non ha strade, la mente. Non ha direzioni, né regole. Vaga liberamente in una stanza buia, sperando che una luce la prenda per mano e la conduca in vicoli sempre più difficili da trovare. In quelle mura, Sabina incontra la luce che tanto aveva rincorso, che tanto aveva cercato. Non ha strade, non ha direzioni, né regole.
Ha solo un nome: Carl Jung.
Allievo del più stimato medico dell’epoca Sigmund Freud, il giovane Jung accoglie Sabina come la sua prima paziente a cui applica i recenti studi del suo maestro, studi che caratterizzano il fenomeno della “Psicanalisi”, una corrente fondata non più sull’utilizzo di medicine ma su una relazione instaurata tra medico e paziente, relazione che avrà tra le finalità più importanti la scoperta dell’inconscio, luogo in cui avvengono le più segrete pulsioni e da cui partono i più frequenti disturbi. Jung e Sabina iniziano così un percorso che prevede incontri privati, dialoghi, discorsi, racconti di sogni per poter così scoprire i suoi desideri latenti e curare la sua isteria iniziando dall’origine dei problemi: l’infanzia.
Nello stesso periodo, Sigmund Freud aveva teorizzato che qualsiasi relazione psicanalitica avrebbe potuto comportare episodi di “transfert”, conseguenza del legame instaurato tra le due parti avente esclusivamente finalità terapeutiche. Il transfert viene definito da Freud come una normale proiezione che conduce a sentimenti di stima, affetto, amore per il partner della relazione, paragonabile a una qualsiasi storia d’amore. L’analista, anche lui particolarmente coinvolto in questo gioco di emozioni, deve essere però capace di gestire questi sentimenti, di ritirarsi quando la situazione diviene insostenibile. Ma, per Jung e Sabina, ciò non avviene. Nelle loro lunghe passeggiate, lei lo considera la sua salvezza, l’unica persona di cui fidarsi, l’unica persona da amare; lui, nonostante una moglie e un figlio in arrivo, cede alle sue parole innamorandosi perdutamente della donna. Ha inizio così una relazione che va al di là del transfert, fatta di sotterfugi, segreti, misteri, un amore surrealista ma magicamente reale. Sabina miracolosamente guarisce, sempre convinta di poter amare ed essere amata, sognando di poter avere lui al suo fianco per sempre.
La vita di Sabina Spielrein è la vita di tutti noi.
Proiettata nel suo mondo fatto di illusioni e immaginazioni, inizia a credere in questo amore, divenuto per lei rinascita, soprattutto quando, dimessa dalla clinica psichiatrica per la sua guarigione, viene seguita privatamente da Jung.
Continua a credere, Sabina. Continua a credergli, a credere che quel legame tra i due sia vero, che lui lascerà sua moglie, che lui sceglierà lei. Ma questo non accadrà mai, e lo comprende solo quando lei svela il suo desiderio: avere un figlio da Jung.
L’uomo avverte così un senso di infinito timore e, ritraendosi a questa scelta, allontana per sempre la donna da sé, pur sapendo dentro di sé l’intensità di un sentimento che non lo abbandonerà mai. Consapevole di esser stato vittima del cosiddetto transfert freudiano, Jung scrive al suo maestro in cerca di confronto e aiuto.
<<Caro professore>>, dice la lettera, <<sono terribilmente perseguitato da un complesso: una paziente che anni fa ho strappato con estrema dedizione a una gravissima nevrosi ha deluso la mia amicizia e la mia fiducia. Mi ha provocato uno scandalo unicamente perché ho rinunciato al piacere di darle un figlio>>.
<<Essere calunniato e rimanere scottati dall’amore con cui operiamo, sono questi i pericoli del nostro lavoro, a causa dei quali però non abbandoneremo certo la professione…>>, risponde il dott. Freud.
E ha luogo così la rottura definitiva tra i due.
La vita di Sabina Spielrein è la vita di tutti noi.
E’ la vita di chi ha creduto ed è stata ingannata , di chi ha sofferto, affidandosi ad emozioni sempre pronte a tradire. E’ la vita di chi ha amato così intensamente da restarne intrappolata, e non ha potuto, non ha voluto vivere una realtà che non era sogno. La vita di Sabina ha luogo ogni giorno, ancora oggi, quando la pazzia diviene l’unica soluzione per sopravvivere; troppo crudele l’esistenza in cui siamo state proiettate, troppo crudele la realtà. Allora menti iniziano a vagare verso luoghi conosciuti solo al nostro inconscio, surrealisti e magicamente reali; sono i luoghi della nostra mente. Non ha limiti, la mente; non ha limiti nemmeno quando crediamo di farcela e invece entriamo in conflitto con sentimenti che odiamo, con inconsci traditori, con sensazioni sempre in bilico tra chi vogliamo e chi dobbiamo essere. Vorremmo poterci affidare alla parte essenziale di noi, a quella parte che non conosciamo ma che qualcuno è riuscito a tirar fuori; e restiamo aggrappate a nuovi sentimenti, sempre convinte di poter sopravvivere, senza renderci conto che il mondo ci sta distruggendo e che lo sta facendo anche quel qualcuno in cui abbiamo creduto sin dall’inizio.
Non ha strade, la mente. Non ha direzioni, né regole. Vaga liberamente in una stanza buia, sperando che una luce la prenda per mano e la conduca in vicoli sempre più difficili da trovare.
Ma la luce c’era, in Sabina. La luce della sua mente era stata condotta dal dottor Jung e, nonostante tutte le delusioni e le separazioni, era ancora ben salda dentro lei. Era ancora luce, la sua vita. Era ancora salvezza. Fu proprio quella luce che portò Sabina a perseguire strade sempre difficili da attraversare.
Nel 1905, Sabina si iscrive alla Facoltà di Medicina dell’Università di Zurigo, con i sogni nel cuore e le speranze nell’anima, laureandosi nel 1911 con la tesi “Sul contenuto psicologico di un caso di Dementia praecox”; qualche mese dopo si stabilisce a Vienna, dove conosce Sigmund Freud e diventa membro della Società Psicoanalitica, presentandovi il suo lavoro “La distruzione come causa del venire all’essere”, testo ritenuto precursore del concetto freudiano di pulsione di morte. Nel 1912 sposa il medico russo Pavel Seftel e l’anno dopo nasce la prima figlia, Renata. La famiglia si trasferisce a Zurigo, da dove il marito, richiamato alle armi, parte per la Russia, mentre Sabina e Renata si stabiliscono a Losanna. Ritorna a Mosca solo nel 1923, quando fonda un asilo infantile d’avanguardia, il cosiddetto “Asilo bianco”. L’istituto viene fondato su principi molto moderni per l’epoca, cercando di adottare metodi innovativi per la crescita dei bambini, impostati principalmente sui concetti di libertà. La donna entra in seguito nella Società Psicoanalitica russa e insegna psicologia infantile nella Seconda Università Statale di Mosca, mentre intanto partorisce la sua seconda figlia.
La vita di Sabina Spielrein è la vita di tutti noi.
E’ la vita di chi ha sofferto e ha continuato a credere, sempre spinta da una luce che illumina non solo il suo cuore ma la sua strada. E quella luce ha un solo nome per lei: Carl Jung. E’ il nome a cui pensa ogni sera, nel momento in cui lo sguardo incrocia gli occhi della Luna; è il nome a cui pensa quando crede di non farcela, anche quando nel 1930, la Società Psicoanalitica viene sciolta dalla dottrina staliniana, anche quando la donna perde il posto di psicologa infantile, anche quando il marito muore di un attacco cardiaco, mentre i suoi tre fratelli vengono giustiziati. Resta sola, Sabina. Sola, con le sue figlie. Sola, con quel nome che le porta luce, che le porta salvezza. E’ sola persino quando, una mattina fatta di luce, entra in una chiesa con le due bambine. Nella mente, gli stessi sogni, le stesse speranze, lo stesso nome. Chiude gli occhi per non guardare; non li aprirà mai più. Sabina e le sue figlie vengono uccise in un massacro di ebrei nazista avvenuto nell’agosto del 1942.
La vita di Sabina Spielrein è la vita di tutti noi.
La vita di Sabina ha luogo ogni giorno, ancora oggi, quando la pazzia diviene l’unica soluzione per sopravvivere; troppo crudele l’esistenza in cui siamo state proiettate, troppo crudele la realtà. Allora menti iniziano a vagare verso luoghi conosciuti solo al nostro inconscio, surrealisti e magicamente reali; sono i luoghi della nostra mente.
Era un luogo, la mente di Sabina. Era un luogo sorto improvvisamente in una stanza buia e senza pareti; vagava liberamente in cerca di luce, fin quando la luce non è entrata in lei sotto forma di amore. Amore passionale, istintivo, amore destinato a distruggere, ad essere distrutto, amore che strappa via il cuore, che lacera emozioni.
Amore.
La vita di Sabina Spielrein è la vita di tutti noi.
E’ la vita di chi ama, di chi viene salvato, di chi salva. E’ la vita di una luce che salva la mente dalle sue stanze buie, per condurla verso strade sempre difficili da raggiungere, strade surreali e magicamente reali.
La vita di Sabina Spielrein è la vita di tutti noi. Siamo legati a lei da un filo invisibile; è il filo che ci salva quando siamo al buio, quando consideriamo la pazzia l’unica soluzione per sopravvivere, quando siamo in bilico tra chi vogliamo e chi dobbiamo essere.
E’ invisibile questo filo; ma è l’unico filo che ci tiene vivi. E’ il filo dell’amore.
“Mi chiamavo Sabina Spielrein.
Quando morirò voglio che il dott. Jung abbia la mia testa.
Solo lui potrà aprirla e sezionarla.
Voglio che il mio corpo sia cremato e che le ceneri siano sparse sotto una quercia su cui ci sia scritto:
Articolo realizzato da Stefania Meneghella