ARTE

Jago, dagli inizi al successo mondiale: “Perché scolpisco? Devo scoprire cose nuove” | L’artista si racconta


Abbiamo incontrato Jago, scultore italiano di fama mondiale. All’età di 24 anni è stato selezionato da Vittorio Sgarbi per partecipare alla 54a edizione della Biennale di Venezia, dove ha esposto il busto in marmo di Papa Benedetto XVI, grazie al quale ha ricevuto una Medaglia Pontificia dal Papa. La scultura è stata poi rielaborata nel 2016, diventando uno dei suoi lavori più noti. Nel corso della sua lunga carriera ha vissuto e lavorato in molti paesi del mondo, tra cui Italia, Stati Uniti, Cina ed Emirati Arabi.

Uno dei suoi capolavori più conosciuti, il Figlio Velato, è stato scolpito a New York e, successivamente, collocato presso la Cappella dei Bianchi, nella chiesa di San Severo Fuori le Mura a Napoli. Jago è stato anche il primo artista ad aver inviato una scultura in marmo nella Stazione Spaziale Internazionale, grazie all’astronauta Luca Parmitano. Si trattava di una piccola scultura intitolata The First Baby e raffigurante il feto di un neonato. Nel 2021 ha installato la sua Pietà nella Basilica di Santa Maria in Montesanto, in Piazza del Popolo a Roma.


Come è nata la tua passione per la scultura?

Ciò che faccio oggi è la versione evoluta di una cosa che ho sempre fatto da bambino; è quasi un gioco, cioè quello di cercare di capire tutto ciò che mi circonda, anche “rompendolo”. Nella mia famiglia c’è sempre stata un’attenzione al tema del bello e legato all’arte: mio padre è architetto, mia madre insegnante di Arte alle scuole medie, e poi anche mio fratello è un appassionato di arte. Sono quindi nato in un contesto favorevole a queste tematiche. Quello che faccio oggi si è inoltre sviluppato anche per necessità, perciò anche per un fine di sopravvivenza. Dovevo coltivare e mettere a frutto il talento già presente, per poter un giorno fare qualcosa che potesse essere anche un lavoro. Una persona ad un certo punto deve vedere ciò che ha nel bagaglio, e io avevo questo. Per me la parola esatta non è “passione”, perché è un qualcosa che va oltre la passione.

Lo scultore, rispetto ad un pittore, non può permettersi di sbagliare. Quindi, deve tirare fuori ciò che vede nella mente al primo tentativo. Possiamo dire che il lavoro dello scultore è più difficile, proprio perché il pittore può correggere i propri errori e invece lo scultore non può farlo?

Se volessimo fare un paragone con la pittura, la pittura è molto più vicina alla scultura fatta con l’argilla, perché con l’argilla puoi modificare e correggere gli errori. E’ un materiale che ti permette di poter sovrapporre, cancellare e di avere dei ripensamenti. In realtà, questo è solo un modo di procedere, non c’è un modo di fare arte migliore dell’altro. Secondo me non dovremmo fare un paragone tra la pittura e la scultura, perché sono due cose diverse. La scultura in marmo è invece un processo completamente diverso, che ti costringe a fare i conti con una parte di te. Innanzitutto c’è il tempo, l’attesa: per realizzare un’opera in marmo ci vuole sicuramente più tempo.

Ci vogliono anche più muscoli per realizzare un’opera in marmo?

Sicuramente dei muscoli diversi. Ci vuole tanta pazienza e devi avere un’attenzione diversa, perché ogni colpo che dai è anche l’ultimo che darai. Io non posso certo dire che non sbaglio: imparo a sbagliare sempre meglio, quindi possiamo dire che so sbagliare bene.

La Pietà realizzata da Jago nella Chiesa degli Artisti.
Credit: canale YouTube di Jago

Michelangelo diceva: “Ogni blocco di pietra ha al suo interno una statua, ed è compito dello scultore scoprirla“. Riesci sempre a tirar fuori ciò che vedi nella tua mente? Quando osservi la tua opera terminata, vedi ciò che sognavi di realizzare fin dall’inizio?

Per fortuna le mie opere sono sempre diverse da come me le immaginavo all’inizio. C’è sempre qualcosa di diverso, perché altrimenti non avrebbe senso fare l’opera. Se tu immagini una cosa e poi la fai, ed è perfettamente uguale alla tua immaginazione, allora non ha senso farla perché è già presente nella tua testa.

Possiamo dire che ti sorprendi anche tu quando realizzi l’opera…

Mi sorprendo mentre la faccio. Il motivo per cui la faccio è perché devo scoprire delle cose nuove: io posso avere un’idea, ma so che quell’idea si modifica durante la realizzazione dell’opera. Anche questa intervista è nata con delle domande prestabilite, ma durante il colloquio possono nascere delle domande nuove e che non ti aspettavi. Io posso dire che, all’interno di un blocco di marmo, esiste un numero infinito di forme possibili. Tra me e te non c’è nessuna differenza nella libertà che abbiamo di poter immaginare le nostre forme (tu hai il tuo numero infinito di forme, e io ho il mio). La differenza tra me e te è che io mi assumo la responsabilità di trarne una. L’artista ha la responsabilità, di cui si fa carico, nel scegliere cosa tirar fuori da quel blocco.

Una delle tue caratteristiche, che si evince dalle tue opere, è il tatto. Se confrontassimo le tue sculture con quelle di Canova o Michelangelo, la differenza più importante che balzerebbe agli occhi sarebbe la rugosità per le tue opere e la levigatezza per le opere di Canova e Michelangelo. Secondo me, utilizzi questo metodo perché vuoi far notare che l’opera è stata realizzata da un essere umano, quindi la tua è un’opera più umana. Invece, Canova e Michelangelo volevano quasi divinizzare le loro sculture.

E’ molto interessante quello che hai detto. Pensa, a quel tempo l’opera di Canova era in fin dei conti un’opera ideale. Questo è un mio pensiero: quando vedo le sue opere c’è una ricerca perfetta dietro la loro realizzazione. Il marmo mi sembrava un materiale capace di potersi esprimere anche a livelli più profondi, cioè quel materiale poteva continuare a dire delle cose nuove: era stato lucidato, sgrossato, ma la pelle non c’era. Quindi, c’era un livello di indagine più profondo che poteva essere indagato. Dall’altra parte c’è il fatto che tu puoi riconoscere la mano dell’uomo. Hai ragione quando dici che voglio far notare che la mia opera è realizzata da un essere umano. Sicuramente c’è anche questa intenzione.

Potremmo dire che Canova inseriva l’anima e tu la pelle…

Si, perché io l’anima non l’ho mai vista e non so neanche se c’è. Non ho la prova dell’esistenza dell’anima, quindi non posso scolpirla. La pelle sicuramente la vedo.

Habemus Hominem realizzato da Jago

Da dove nasce la tua ispirazione? Ti ispiri a qualcuno o a qualcosa? Il tuo lavoro viene influenzato anche dal luogo in cui deve essere esposta la tua scultura?

Per quanto riguarda l’ispirazione, mi ha sempre colpito questa parola, perché quando ti dicono “dove trovi l’ispirazione?”, sembra quasi che vogliano sapere dove prendo il suggerimento. Sicuramente io mi ispiro facendo, producendo… Mentre lavoro mi vengono in mente delle nuove idee. E poi è vero, anche il luogo in cui deve essere installata la mia scultura mi influenza, ma anche il luogo in cui la realizzo mi condiziona, comprese le persone che incontro in quel momento. A me piace essere condizionato dai luoghi, anche perché il genio è il luogo. Io quando stavo a New York ero un artista pop, perché venivo condizionato. Chiaramente l’artista ha il compito di comunicare, quindi cerca di assimilare tutto ciò che ha intorno.

Per la realizzazione delle tue opere utilizzi sempre il marmo?

Il marmo è il mio materiale preferito. Ho utilizzato anche altri materiali, come i marmi neri, per sperimentare. A me interessa soprattutto comunicare, non cercare di creare un’opera strana, con un diverso materiale. Ad esempio, in passato ho usato il marmo nero per realizzare la figura di un ragazzo migrante. Questo per farti capire che cambio materiale quando serve cambiarlo, come per il ragazzo migrante.

All’età di 24 anni hai partecipato alla Biennale di Venezia, hai ricevuto la medaglia Pontificia, hai lavorato in molti paesi del mondo… Qual è l’esperienza che ti ha influenzato maggiormente artisticamente e umanamente?

Guarda, non ti saprei dire qual è l’esperienza che mi ha influenzato maggiormente. Io le reputo tutte fondamentali e importanti, dalla più bella alla più brutta. Tutte queste esperienze mi hanno arricchito, quindi non ne cancellerei nessuna. Per i viaggi, mi sono reso conto di quanto ti arricchiscano, perché vedi un te possibile in altri luoghi. Scopri che la diversità ha un valore, poi ammiri le altre bellezze e impari a risolvere molti problemi.

Queste esperienze si ripercuotono nell’arte, perché possono giungere nuove idee per le tue future creazioni?

Io ho viaggiato sempre per lavoro. Tutti i viaggi che ho fatto li ho fatti per lavoro, quindi è stato doppiamente bello. Sono andato in Cina, e l’ho scoperta con l’arte, ammirando luoghi incredibili. Ho vissuto anche due anni a New York. Poi sono molto affezionato agli Emirati Arabi. Però, anche se può far ridere, non sono mai stato a Parigi e a Londra. Nonostante tutti questi viaggi, il viaggio più bello è quello che faccio in Italia, nella mia terra. Noi viviamo in un posto meraviglioso. Molti ragazzi e ragazze mi scrivono dicendomi di voler andare via dall’Italia. Va bene fare l’esperienza all’estero, ma non si rendono conto che vivono in un posto dove la qualità della vita è assoluta. L’Italia è il posto più bello che io abbia mai visto. E’ vero che la bellezza la trovi ovunque, però da noi si è espresso il genio del mondo intero. L’Italia è piccola, quindi in poco spazio trovi tutto questo. Viviamo in un lusso incredibile. Per renderti conto di ciò che abbiamo, devi andare nei posti dove non c’è questo lusso.

Habemus Hominem realizzato da Jago.
Credit: canale YouTube di Jago

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Ho letto che sei il primo artista ad aver mandato una piccola opera d’arte nello Spazio, nella Stazione Spaziale Internazionale. Come ci sei riuscito?

E’ stata un’idea che mi è venuta per caso. Un giorno stavo con un mio amico italiano a New York, che avrebbe voluto fare un documentario sul mio lavoro (poi non siamo riusciti a farlo per mancanza di tempo), e quindi tra una chiacchiera e l’altra mi ha detto che stava facendo un documentario sull’astronauta Luca Parmitano, il quale si stava preparando per la sua prossima missione nella Stazione Spaziale Internazionale. E così io gli ho chiesto: “Perché non mandiamo una scultura nello Spazio? Prova a chiederlo a Luca”. E Luca ha accettato. Per me è l’idea che conta, quando hai un’idea devi agire subito, altrimenti non si fa niente e diventa tardi.

Quali sono i tuoi artisti preferiti?

Quelli morti! Amo anche molti artisti vivi, ma potrei dimenticarmi qualche nome, quindi per rispetto parlo degli artisti del passato. In questo modo, se dimentico qualcuno, non possono litigare fra di loro. Un artista deve essere un maestro, quindi mi piacciono di più gli artisti morti perché li reputo dei maestri di dominio pubblico, che possono insegnarmi sempre qualcosa.

Cosa pensi dello scorrere del tempo e dei cambiamenti che avvengono nei decenni e nei secoli? La scultura, che è fatta di pietra, sembra resistere a tutto. Molte statue esistono da secoli, e hanno affrontato lo scorrere del tempo e i vari cambiamenti della società. Come vedi il mondo della scultura nei prossimi decenni?

Tutte le cose sono soggette allo scorrere del tempo, in modi diversi. Ci sono cose che resistono di più come le sculture, e cose che resistono di meno come la mia carne, ma entrambi hanno la stessa dignità di esistere. Mi piace vedere come il tempo sappia agire sulla superficie delle cose, scolpendo e modificando la natura. E questo è un pò quello che fa la scultura. Ad esempio, lo scarto di marmo che viene buttato nel fiume da una montagna col tempo acquisisce un altro tipo di valore: il fiume fornisce allo scarto di marmo una nuova dignità naturale, trasformandolo nuovamente in sasso. E anche questo è un gesto di scultura. Io non penso che la mia scultura sia eterna, non mi interessa il concetto di eternità. Quello che spero è che possa essere un momento di riflessione per un ragazzino, affinché un giorno possa dire: “questa cosa la voglio fare anch’io”. Se accadesse questo, per me sarebbe un buon risultato.

Secondo me, sapere di avere un tempo limitato è un valore incredibile, perché sai di avere un numero limitato di settimane da vivere da zero a 90 anni di età. Ti basta anche segnarti le settimane che ti rimangono su un foglio di carta, e dire: “questo è il tempo che mi rimane”. Prova a fare questo esperimento, e vedrai che ti cambierà la percezione della vita.

Published by
Fabio Meneghella