Il cammino dell’accoglienza


 

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La cultura dell’accoglienza viene da lontano. L’esperienza dei popoli ha espresso nei momenti più difficili della storia uno spazio privilegiato all’ospite, e nella pratica della carità cristiana abbiamo imparato che l’accoglienza dell’altra persona è via privilegiata per l’incontro con quel Dio che si manifesta prima di tutto nel volto di un uomo. Assieme a Michela Serangeli, mamma adottiva di due bambini colombiani, ci siamo chieste se vi fosse differenza nei pensieri degli italiani, mentre posano i loro occhi su un bambino di pelle scura adottato all’estero da genitori italiani, ed un bambino proveniente magari dallo stesso paese, ma arrivato fin qui con la propria famiglia d’origine. Questo non per voler mettere in cattiva luce il nostro “essere italiani”, ma per meglio comprendere da dove derivi quel sentimento di incomodo che spesso ascoltiamo nei commenti della gente, ad esempio sui social network, che attacca con veemenza l’ondata migratoria di questo ultimo decennio e vede nello straniero un nemico che rischia di depersonalizzare la nostra cultura d’origine. Una riflessione che spinge ciascuno di noi a chiederci: come vivo la bellezza o la fatica di un’altra persona che mi sta accanto? Che coscienza ho del dono che è per me, anche quando la sua diversità mi diventa talvolta motivo di scandalo? Dobbiamo anche chiederci se il rifiuto dello straniero non sia, in realtà, una nostra mancanza di accoglienza e di apertura verso ciò che ancora non conosciamo o non desideriamo comprendere, poiché a volte, ci comportiamo in maniera molto simile quando i nostri stessi familiari sfidano le nostre regole del senso comune e ci spingono a confrontarci con percorsi di vita che non siamo capaci di accettare.
Vivere l’accoglienza è un viaggio alla scoperta della nostra interiorità che mette a nudo le fragilità e ombre di ciascuno e ci spinge ad uscire da noi stessi per immergerci nel vissuto dell’altro, scoprendo che le sue diversità possono ampliare la nostra visione del mondo e permetterci di guardare la vita da diverse prospettive. Questa è stata l’esperienza di Michela e Christian, due sposi che hanno affrontato con coraggio e gratitudine le sfide e le gioie di accogliere nella loro coppia Alessandro, un bambino in affido, e più tardi adottando Miguel Angel e Moisés David, due bambini di origine colombiana. Un lungo percorso che raccontano nel loro libro-testimonianza: “Questa navicella sta entrando in orbita. Diario di bordo di una famiglia adottiva” (Tau Editrice).

Lascio ora la parola a Michela Serangeli.

 

D: Potresti raccontarci le tappe principali del vostro incontro di coppia fino al cammino di conversione?

R: Ci siamo conosciuti da piccoli: 21 e 17 anni. Tutto è nato con una bellissima amicizia, eravamo complici e affiatati, ci facevano ridere le stesse cose, ci piaceva la stessa musica, ci divertivamo un sacco. Suonavamo nella stessa band ed eravamo spensierati, biondi, magri e pieni di sogni.
I primi anni di fidanzamento trascorrono scoppiettanti, poi a un certo punto sopraggiunge la fatica. Ci accorgiamo di litigare sempre per le stesse cose, non ci troviamo più, ognuno sembra andare per conto suo e questo pesa, delude, scoraggia. Andiamo in crisi, litighiamo continuamente, la gelosia ci corrode, non abbiamo una progettualità vera, una visione comune, eppure abbiamo una malsana dipendenza affettiva l’uno dall’altro. Sembra una trappola.
Un passaggio fondamentale della nostra storia è stato l’incontro con i frati francescani e l’inizio di una fase bellissima di scoperta della fede grazie alle catechesi sui 10 Comandamenti.
Le nostre ferite personali piano piano guariscono ed anche il nostro rapporto rifiorisce grazie alla castità, grazie alla preghiera. Iniziamo a prendere assieme le decisioni, facciamo delle scelte, torna l’amicizia e l’amore sboccia come mai avremmo immaginato.
Abbiamo avuto l’intuizione che tutto questo lo volessimo per sempre, così il 2 giugno 2007 ci siamo sposati.

D: A 21 anni arriva la conferma di una diagnosi che stenderà un velo al tuo desiderio di maternità, come affrontate questa realtà nei primi anni di matrimonio?

R: Già da fidanzati sapevamo di non poter avere figli. Quando l’abbiamo scoperto, io avevo 21 anni, e lì sul momento andammo avanti come se niente fosse. Eravamo tanto innamorati e ci sentivamo tanto forti. Poi, da neo-sposini ci siamo messi all’opera e abbiamo cominciato a provarci lo stesso. Dopo un paio d’anni l’abbiamo capita. Era vero: i figli non venivano.
A un anno e mezzo dal matrimonio abbiamo accolto in affido familiare Ale, un bambino di nove anni, che poi è stato in famiglia con noi per 5 anni. Nel frattempo, abbiamo maturato il desiderio di accogliere un figlio della Provvidenza, così abbiamo avviato il cantiere dell’adozione.
Siamo diventati genitori in Colombia, a Bogotà, nel 2013 quando abbiamo adottato Miguel Ángel, di un anno. Poi nel 2016 siamo tornati per prendere Moisés David, di un anno e mezzo.

D: D: Parlaci di Alessandro, il bambino che avete amato “sino alla fine”.

R: Ale, quando è arrivato da noi, era un bambino ferito, tradito dalla vita, privato delle cose elementari: l’affetto dei grandi, il gioco, la cura, la serenità. Era un bambino abituato alle botte, ai maltrattamenti, all’incuria. Non aveva mai ricevuto un regalo, un giocattolo. Nessuno gli aveva mai raccontato una fiaba. Era un bambino che per ottenere attenzione si comportava male, ti faceva arrabbiare con continue sfide e provocazioni. Lanciava ininterrottamente un appello disperato: amatemi. Quello che può fare una famiglia affidataria non è poi così straordinario, infatti, stando a casa nostra Ale ha imparato cose semplici: a dire “grazie” e “per favore”, a mangiare stando seduto composto, a lavarsi i denti al mattino e prima di dormire. Ha dovuto imparare a raccontare. Raccontare cosa ha fatto durante la giornata, condividere le sue impressioni. Ha scoperto che in famiglia si parla, ci si ascolta, ci si incoraggia. E che anche se si litiga, perché si litiga, c’è un modo amorevole di gestire il conflitto. Che non serve arrivare alle mani. Ale era un bambino che aveva uno schema preciso: l’esasperazione. Se c’era una gioia, esprimeva una felicità sguaiata, che sfociava nell’eccesso. Se c’era un conflitto, esprimeva una frustrazione esasperante, facendo capricci inenarrabili che duravano ore. Gestire il rapporto, soprattutto quando c’erano di mezzo i problemi scolastici, non era facile. C’è stato un momento in cui abbiamo deciso che non eravamo più disponibili a dare la vita per lui. Chiamammo i Servizi Sociali e gli dicemmo di venire a riprenderselo. Eravamo davanti al nostro limite: fino a che punto eravamo disposti ad amare? Un punto molto fragile, una capacità di amare molto debole. La misura dell’amore è il perdersi. Ed io non mi volevo perdere. Ovvio che poi è andata a finire che non l’abbiamo più restituito ma ce lo siamo tenuto fino a che il Tribunale ce lo ha permesso. Ma Ale, con il suo bisogno d’amore, ci ha fatto capire che non eravamo poi così buoni e santi.

D: Nasce in voi la voglia di diventare genitori adottivi: qual è stato il vostro percorso?

R: C’è stato un momento nella mia vita in cui ho pensato che non sarei mai stata una mamma. E in quel momento ho chiesto di poter essere felice lo stesso, figli o non figli. Poi un altro in cui con Christian abbiamo pensato che valeva la pena aprirsi alla possibilità di accogliere un figlio della Provvidenza. Non saprei in che altro modo descrivere la cosa. Il desiderio è nato nella nostra intimità di coppia, in modo molto semplice e naturale

D: Miguel Angel era un bambino colombiano con bisogni speciali di appena un anno, ci puoi raccontare la sua storia?

R: Quando ci chiamarono per l’abbinamento, Miguel Angel aveva appena 13 mesi. Ci dissero che aveva un ritardo psico-motorio, che aveva avuto un’ipossia neonatale, che era ossigeno-dipendente, che aveva trascorso i suoi primi 11 mesi in ospedale e che era stato rianimato 4 volte. Tuttavia, la visita neurologica non evidenziava danni cerebrali. Ci mostrarono una foto in cui sembrava un gigante. Sorrideva, aveva giusto due dentini e degli occhietti dolcissimi. Ci lessero le carte del tribunale e ci spiegarono la sua storia. Dicemmo subito di sì.

D:Arriva Moises David, la vostra famiglia è al completo: quali sono le sfide dell’integrazione sociale riguardo i bambini adottivi nel nostro paese?

R: L’arrivo di Moisés David è stato deflagrante. Lo desideravamo tanto un fratellino per Miguel e non abbiamo perso tempo ad inoltrare la seconda domanda di adozione. Moisés viene dalla costa nord della Colombia, è un negretto cicciottello del Caribe. È un bambino prorompente, in tutto e per tutto. Il suo arrivo ci ha rimesso in cammino, ogni schema è saltato, le nostre dinamiche familiari sono andate in tilt. Un figlio ti impone di cambiare, di riconsiderare i tuoi programmi, le tue aspettative. Un figlio ti conduce fuori dai tuoi schemi, ti chiama continuamente ad un esodo. Ed infatti noi il nostro esodo lo abbiamo fatto con Moisés (Mosè). Il piccolo caraibico ha la pelle color cioccolato, ma all’asilo non è l’unico. In una classe di circa 20 bambini, più della metà sono stranieri. Nella nostra cittadina di provincia siamo piuttosto abituati all’integrazione culturale, etnica, e la viviamo per lo più (forse non tutti) come una ricchezza. Il migliore amico di Moisés è Arbi, bimbo del Bangladesh, e insieme fanno a gara per chi deve essere più marrone. La differenza sta solo negli occhi di chi guarda. I bambini sono semplicemente bambini. Per adesso non ci sembra che il colore della pelle di Moisés generi turbamenti negli altri. Tuttavia, al parco giochi ci è capitato di assistere a scene poco graziose (da parte degli adulti) nei confronti del bambino cinese o del bambino marocchino.

D: Ascoltiamo dal tuo cuore, la gioia di essere mamma.

R: Avere un figlio, e non averlo portato nel grembo, non è uno scherzo. In effetti, non si può dire che io sia una mamma nel senso colmo del termine (almeno apparentemente), perché l’esperienza della gravidanza non l’ho mai fatta né mai la farò. Non so cosa vuol dire sentir crescere dentro di te la vita, non so che vuol dire coltivare quell’attesa. Non so cosa vuol dire accudire un neonato, non so cosa vuol dire allattare il figlio che Dio ha intessuto nella tua carne. Eppure, continuo a sognare l’impossibile ma vero: essere una mamma. E la cosa si realizza ogni giorno.
Arrivare ad abbracciare Miguel, arrivare a perderci nei suoi nerissimi occhietti provati, è stato il motivo per cui era necessario passare prima da tante tribolazioni, impedimenti, ostacoli del percorso adottivo. Sono stati i miei dolori del parto. Diventare la sua mamma è stato come rinascere assieme a lui.
La prima notte trascorsa con Moisés (ma anche molte delle notti successive) l’ho passata stringendolo al mio petto e cullandolo nel tentativo di placare il suo pianto. Ho sentito tutta la sua disperazione attraversarmi. Lui non è stato nelle mie viscere ma, credetemi, l’ho sentito nelle viscere. La sua disperazione e la mia, abbracciate in una notte senza appigli. Ho sentito ogni minimo anelito del suo cuoricino.

D: Quali sono le principali perplessità per quei genitori che stanno valutando la strada dell’adozione?

R: La paura principale con la quale si devono confrontare è quella di non riuscire ad amare questi figli, non riuscire a sentirseli figli, la paura di non essere riconosciuto come genitori, la paura che un giorno questi figli se ne andranno. Tutto il resto – i costi del percorso adottivo, i tempi di attesa, il “come faremo con il lavoro”… – sono questioni che davvero vengono dopo. Ci sono tanti luoghi comuni e tanta disinformazione. Per dissipare queste paure e discernere bene, l’unica cosa da fare è conoscere le famiglie adottive, ascoltare le storie, guardare questi bambini e rendersi conto che sono bambini normalissimi, non sono mostri verdi con due teste e cinque occhi. Giocano, ridono, fanno capricci, si ammalano, guariscono, imparano, ti danno baci, e ti chiedono abbracci. Vogliono dormire nel lettone e ti rubano lo smartphone per andare a vedere i “Pigiamini” su YouTube.
D: Come ha mutato il vostro rapporto di coppia l’arrivo di questi due angeli colombiani?

R: Siamo sempre noi, eppure siamo diversi. Ci amiamo di più, sicuramente. Ci sentiamo compagni di un’avventura straordinaria.
D: Puoi spiegarci con le tue parole cosa è la cultura dell’accoglienza?

R: È vedere l’immigrato, il bambino adottivo, la compagna di classe siriana, o la mamma tunisina al parco giochi, e vederli per quello che sono: persone. Provare a parlarci per scoprire che poi non siamo così diversi. Al compleanno di Mosè, festeggiato al parco giochi in modalità “chi c’è c’è” i bimbi musulmani chiedevano se nei tramezzini ci fosse il “porco”. La cosa ci ha divertito. Loro stessi hanno ironizzato. Chissà perché abbiamo sempre paura che l’altro venga a fregarci, a prendersi qualcosa che forse potrebbe anche essere nostro, un giorno, se ci gira. Come ad esempio il tanto ambito posto di lavoro come raccoglitore di zucchine a 1,50 € l’ora in nero. Ma è anche vero che l’illegalità, la violenza non va mai sottoscritta o favorita, a prescindere dal colore della pelle di chi la compie. Non possiamo neanche essere razzisti all’incontrario né fondamentalisti all’incontrario. Il crimine va punito e arginato, non importa se a commetterlo è un italiano o uno straniero. Ma se una famiglia di immigrati vive nel nostro quartiere, ed è ben integrata, la cosa non può recare disturbo a chicchessia.

In tante occasioni mi era capitato di incontrarla per strada o all’uscita dell’asilo una ragazza dell’est. È la mamma di una bambina che va a scuola con Moisès. La vedevo sempre rigida, gelida, seria, severa, antipatica. Mai un sorriso, mai un cenno di intesa, mai neanche il tentativo di scambiare due parole. Mi pareva triste, persino. Ho iniziato a fantasticare che il marito la picchiasse e che lei, da sola, doveva tirare avanti le bambine e tutto il resto. Un giorno Moisès è corso ad abbracciare Alina, la sua figlia più grande, e lei – la mamma – ha scacciato mio figlio da quell’abbraccio. Ci rimasi molto male. Qualche tempo più tardi, successe che, un pomeriggio al parco, Moisés si mise a giocare con i giochini di Alina, fra i quali c’era un cigno. Mi sentivo a disagio perché l’antipatia per questa donna era forte. Quindi tolsi dalle mani del piccolo quel cigno di plastica per riconsegnarglielo. Quando glielo diedi, i suoi occhi mi caddero addosso, tristi ma dolci. Mi disse:
«Sai? In Ucraina, nella mia città c’è un lago bellissimo, e in questa stagione nascono i piccoli di cigno. È uno spettacolo, vedessi come sono carini».
Per la prima volta ho sentito la sua voce. Parlava lentamente e per la prima volta la vedevo sorridere leggermente. Ho letto una nostalgia enorme nei suoi occhi, eppure una meraviglia, uno stupore, una tenerezza nel raccontare com’è casa sua. Mi descriveva il suo paese come il luogo più bello del mondo.
Cavolo, le manca il suo paese, penso. Le manca casa sua, forse le mancano i suoi genitori o i suoi fratelli. Forse vorrebbe tornare ma non può.

Chi sono gli immigrati? Sono i delinquenti, gli spacciatori, i perdigiorno? Forse sì, in troppi casi accade, e non dovrebbe accadere. Ma, per lo più, gli immigrati, per me, sono la mamma di Alina.

 

Ringrazio di cuore Michela Serangeli per essersi aperta con noi sul tema dell’adozione e, in generale, sulla storia della sua vita. Potete trovare il loro ultimo libro “Rocamboleskin – Manuale di felicità per famiglie imperfette” scritto a quattro mani col marito Christian Cinti al seguente link: Rocamboleskin – Manuale di felicità per famiglie imperfette

 

Intervista realizzata da Martina Castellarin

Published by
Stefania Meneghella