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In questa intervista, andremo ad investigare un tema molto dibattuto e controverso che, nonostante riguardi la sfera femminile, va necessariamente a toccare le corde della famiglia e, in un senso più ampio, dell’intera società: l’identità femminile.
Come è cambiato il ruolo della donna in questi ultimi decenni rispetto alla ‘visione tradizionale’ che l’ha sempre collocata all’interno delle mura domestiche e che percepisce la donna come una figura indispensabile per la cura, il benessere e giusto equilibrio di ogni componente familiare? Affronteremo questo ed altri aspetti tematici assieme a Giuliana di Chiara che è una sposa, madre, insegnante e autrice del libro: “Amare fa la differenza – Maschile e femminile in missione speciale” (Tau Editrice).
D: I grandi cambiamenti culturali degli ultimi cinquant’anni, come hanno cambiato il ruolo della donna all’interno della struttura sociale e quali conseguenze hanno provocato nella sua percezione di sé?
R: Dagli anni Sessanta in poi, sicuramente anche dapprima, penso ci sia stata una forte spinta nell’autonomia della donna rispetto all’uomo, con risultati tuttavia discutibili. Mi riferisco al mondo occidentale, perché la condizione femminile altrove conosce percorsi diversi.
Inizialmente, per la donna, si trattava di “raccogliersi” per ritrovarsi, risucchiata com’era dalle esigenze maschili della propria famiglia e della società, a scapito talvolta perfino della dignità personale. In seguito, però, la spinta si è rivelata non proprio ben direzionata. Le contestazioni degli anni Sessanta, dopo che la bandiera del femminismo è stata issata, hanno prodotto in sostanza uno svuotamento del consueto ruolo femminile e, di conseguenza, del significato di sé. I ruoli stereotipati, è vero, costituivano un riferimento rigido ma contribuivano a dare un orientamento e, inoltre, a chiarificare il reciproco vantaggio di ambiti e attività differenti. Una volta che le coordinate sociali del maschile e del femminile sono state rimosse, non si è più riusciti a riposizionarle stabilmente ed è naturale che cresca un disorientamento generale. Rimangono molti punti di domanda. Le domande, di per sé, sono cosa pregevolissima. Il ruolo chiave nella nostra vita, però, credo ce l’abbia la qualità delle risposte che riusciamo a dare: è fondamentale che siano adeguate e soddisfacenti il significato stesso della nostra esistenza . Se la risposta tarda, si rischia di riempire quella domanda con rimedi tanto immediati quanto poveri rispetto all’esigenza originaria. È così, ad esempio, che si magnifica il tempo dello shopping, mentre si evita di guardare a fondo dentro di sé perché “non ne ho certo il tempo”.
D: Alla luce delle tue considerazioni, quale ruolo sembra oggi definire in maggior misura la donna?
R: Credo sia il ruolo lavorativo che, nell’accezione comune, si riferisce al lavoro fuori casa. Il lavoro in casa non è ritenuto un vero lavoro, piuttosto un contorno sottointeso della vita quotidiana. Questo perché la quasi totalità delle donne oggi lavora fuori per la maggior parte della giornata e, dunque, ne rimane ben poco da dedicare all’ambito domestico, inteso come insieme di cose e purtroppo anche di persone. Incombenze varie vengono organizzate e suddivise tra i volenterosi della famiglia, qualche colf e tante baby-sitter. Nel tempo, tuttavia, l’imbocco entusiasta della strada del lavoro fuori casa, come strumento di emancipazione e indipendenza femminile e, in generale, risoluzione di tutti i mali, si è rivelato in parte un boomerang. Da mezzo positivo per situazioni economiche familiari altrimenti insostenibili, da importante o interessante esperienza integratrice dell’identità, oggi è divenuto il catalizzatore totale di ogni energia. Così, se prima il ruolo sociale era necessariamente in correlazione con l’identità maschile o femminile, ora la scelta del ruolo da giocare nella società si è quasi totalmente concentrata sul lavoro esterno, fino alla sovrapposizione dell’identità con il ruolo: lavoro quindi sono. Per capire chi è, la donna guarda soprattutto fuori le mura domestiche. Finisce che si aggrappa al ruolo lavorativo per definirsi. Ruolo che si è inevitabilmente mangiato, gradatamente, altre dimensioni identitarie femminili, come la maternità o la specifica capacità relazionale. La donna, a questo punto, vive come incastrata fra tensioni contrapposte in direzione di “realizzazioni non realizzabili” e rischia di smarrire per la strada il senso profondo di sé, unitamente ai caratteri del femminile. Si ritrova, insomma, con un’identità derubata.
D: Come ha influito questo suo “slittamento di ruolo” sulla famiglia?
R: Ha influito, appunto, abbastanza negativamente. Se la donna è in coppia, la relazionalità si gioca soprattutto dentro la coppia. È nelle relazioni più profonde che mi costruisco e posso, a mia volta, dare anche al di fuori. Non il contrario. Ma la coppia ha bisogno di cura e del famoso tempo che non c’è. Persino Papa Francesco, nell’Esortazione Apostolica Amoris Laetitia (n. 137), dedica una riflessione alla necessità di trascorrere del tempo in coppia e in famiglia per imparare ad ascoltarsi profondamente. Potremmo dire che occorre quasi “contemplare” l’altro per cogliere il mistero che ciascuna persona porta nella sua unicità, e per questo è necessario non solo del tempo di qualità ma anche semplicemente del tempo, in quantità, che si scelga appositamente di dedicare. Ora, da una parte, la coppia è la prima a lamentare di non avere tempo a sufficienza per coltivarsi e, dall’altra, pretende di costruire su di un’impostazione divergente fin dall’origine, orientata alla realizzazione individuale e, possibilmente, del tutto autonoma – come se ciò fosse possibile – dei suoi componenti. Ciascuno corre la sua corsa. Ma arriva il momento in cui non ci si comprende più, o abbastanza, e ci si ritrova prigionieri di dinamiche pesantissime che mettono alla prova anche la scelta di una vita insieme. Si addebitano le ragioni dell’estrema fatica a mancanze: di maturità del partner (ho sbagliato persona!), di tempo libero, di figli se non arrivano, di impegno con i figli adolescenti. Quando invece ciò che manca è la coppia. Coppia come habitat di cui beneficiare entrambi, in cui ambedue possono crescere. Non nonostante l’altro ma proprio grazie all’altro. In una reciprocità esclusiva che certo non prescinde dalla differenza identitaria di partenza e che di essa si nutre per promuovere lo sviluppo pieno di lui e di lei. Il maschile è indispensabile per la realizzazione del femminile, e viceversa.
La lunga lotta delle donne per l’indipendenza economica ha forse perso di vista alcuni oggettivi motivi di partenza e si è trasformata in una fuorviante tendenza individualista che impoverisce e si ritorce contro gli stessi desideri di realizzazione di entrambi. Non è appiattendo la differenza che l’uomo e la donna possono riconoscersi e quindi incontrarsi. È la differenza che stimola ad uscire da se stessi incontro all’altro.
Dal benessere della coppia discendono quello genitoriale e familiare. Una donna in perenne conflitto, con se stessa e con il partner, difficilmente sarà madre adeguata, nuora sincera, e così via. Con tutte le compensazioni che le dinamiche della società – e il mercato – oggi offrono senza troppa fatica. Per logiche purtroppo estranee ai veri interessi della coppia o della famiglia.
D: Come è mutata la visione della donna rispetto al proprio ruolo nella maternità?
R: Penso che la maternità rimanga uno dei desideri più comuni nella donna matura, il che significa dopo i trent’anni. Penso però che spesso assuma dei tratti egocentrici ed individualisti. Mi spiego. Avere un figlio è visto in generale positivamente ma come una componente eventuale della propria realizzazione, un bell’accessorio. Nel momento in cui ostacolasse il “percorso personale”, si trova il modo di affidare il figlio ad altri, si tratti di un asilo nido, un centro ricreativo o un parente disponibile. Perché così “impara a rapportarsi con gli altri”. Certamente troverà da imparare. Nei primi anni di vita, però, l’apprendimento avviene tramite gli affetti più intimi che sono insostituibili.
Il fatto è che il figlio porta con sé un viaggio dentro se stesse, a contatto con le immaturità nascoste. Se scombussola troppo psiche, mentalità e progetti, si provvede a spostare il problema altrove e si mantengono i progetti. Il progetto viene prima del figlio, e non si tratta solo di esigenze economiche, come attesta la nuova tendenza europea a non fare addirittura figli per fare semplicemente dell’altro, chiamata free child.
La donna sembra, comunque, voler essere madre fino ad un certo punto, quello sentimentale, poetico – emotivo. Sogna “le sensazioni” della maternità, non desidera né approva il sacrificarsi in qualche modo per essa. Perdere qualcosa, “sacrificarsi” ha assunto una valenza per lo più negativa. Così accade in America, ma anche più vicino, che prenda piede il fenomeno della Reborn doll. Si tratta di una bambola dai materiali molto sofisticati e dalle fattezze incredibilmente verosimili (e dal prezzo esorbitante). Donne colte già professioniste e benestanti – raccontava qualche tempo fa Teresa Ciabatti in un articolo sul Corriere della Sera – acquistano on line il kit della Reborn da costruire o già bell’e confezionata. La portano al parco in passeggino o nella sala d’attesa del pediatra, per poi scappare, giusto prima del turno, a causa di una telefonata. Come gioco è pericoloso, il confine tra gratificazione e patologia è assai sottile.
In realtà, si ha una paura matta dei cambiamenti che tocchino nel vivo. È vero che tutto, nella vita di oggi, scorre con una rapidità mai riscontrata. Siamo soggetti, di norma, ad una quantità di cambiamenti sconosciuta alle generazioni precedenti. Ne consegue che, forse, ciò che si teme di più è aggiungerne ancora altri. In questo senso “attesa”, diceva Bauman, è divenuta una parola oscena, proprio perché oggi attendere può accrescere incontrollabilmente lo stato d’ansia che accompagna di per sé qualsiasi attesa.
D’altra parte, l’eccessiva ansietà non risparmia neanche alcune donne che hanno optato per i figli, tentando però una conciliazione sommaria di carriera e maternità. Se il tempo e l’energia per la famiglia si rivelano insufficienti, magari attraverso i frutti di qualche compromesso di troppo, l’inevitabile senso di colpa esce sotto forma di atteggiamenti ansiogeni che non fanno bene a nessuno.
D: Delineando questo profilo, ne scaturisce una donna profondamente cambiata rispetto al passato: in questa ‘nuova’ identità femminile, l’uomo che posto occupa?
R: Se l’identità femminile cerca se stessa, se donna e uomo sono insostituibili per la costruzione e definizione ciascuno della propria identità, allora neanche l’uomo potrà sapere esattamente chi è. Quindi non occuperà un posto preciso, rischia anzi di non avere più voglia di occuparlo. Credo che, dopo tante rivendicazioni, la donna oggi dovrebbe fare una domanda a se stessa: con il mio atteggiamento di autosufficienza, cosa sto chiedendo all’uomo? Forse niente. E il guaio è proprio questo. È impensabile un mondo armonico senza una vita di reciprocità. Non è l’individualismo che costruisce una società. E il modello base è proprio la reciprocità uomo donna. Nella pratica vediamo padri, anzi, nonni, che portano a passeggio i neonati. Ma dubito che il progresso consista nell’apprendimento maschile del cambio pannolino, senza nulla togliere alla bontà della condivisione della cura della prole. Il posto dell’uomo, come quello della donna, è insostituibile. Se resta vacante, questo non può essere indolore. Sia per l’uomo, sia per la donna. Pensati per essere differenti e ritrovandosi in collocazioni “indifferenti”, potrebbero ritrovarsi, più che altro, fondamentalmente “sofferenti”.
D: Il ruolo decentrato della donna rispetto all’accudimento dei figli, che conseguenze potrebbe portare in futuro?
R: La donna è grembo, e grembo interiore. A differenza dell’uomo che cresce il figlio all’esterno, in modo molto sintetico. Scorporare a poco a poco la maternità dalla donna, e tutto ciò che essa comporta se vissuta naturalmente o anche solo spiritualmente, significa defraudare la donna di quell’esperienza unica che comporta ogni gestazione: l’attraversamento di una paura, o di molte, all’interno di sé, fino a riconoscersi e a riconoscere il figlio. Significa toglierle un pezzo di ponte sotto i piedi, pretendendo che raggiunga la meta al di là del pericoloso vuoto di identità e, quindi, di maturazione piena. Da parte sua, il figlio di una madre “distratta” potrebbe non trovare riconoscimento e sviluppare un’insicurezza permanente. Donne derubate, madri parziali di una popolazione insicura. Riassunto così, un po’ banalizzato,assume i contorni di uno scenario inquietante e senza sbocco .
– Se so riconoscermi creatura posso anche attingere a un trascendente creatore che così si chiama poiché è in grado di “trascendere” spazi e tempi circoscritti, quindi situazioni e limiti. Per un credente, proprio sul limite si china il divino che, amante com’è dei figli prima di tutto suoi, si cura in profondità di ciascuno. È importante ciò che ho vissuto, come donna, ma lo è ancora di più ciò che sceglierò di vivere e come lo vivrò. Un’intuizione preziosa su di una scelta da intraprendere, un consiglio su ciò che è veramente importante… vanno custoditi. Lasciati germogliare e colti al momento della decisione. L’Amore parla ad ognuno e non teme alcuna irrimediabilità. L’importante è fare ciò che è possibile meglio che si può. E poi, alla fine, resterà l’Amore, come è scritto nell’Inno alla Carità (I Cor 13, 8).
Ringraziamo Giuliana di Chiara per averci accompagnato in questo viaggio nell’universo femminile, luci e ombre di una realtà sempre in evoluzione.
Intervista realizzata da Martina Castellarin