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Nato a Formia nel 1988, cresciuto a Gaeta, Giovanni a 18 anni si trasferisce nella capitale per studiare filosofia all’università di Roma «Tor Vergata». Ha da poco finito un dottorato in Scienze Filosofico-Sociali con una tesi sulla filosofia di Albert Camus. L’abbiamo visto tra i fornelli della quinta edizione di Masterchef Italia, in cui è arrivato poi alla decima posizione; oggi lo ritroviamo qui, a distanza di mesi, mentre ci racconta la sua vita dopo questa esperienza.
Lasciamo la parola a lui, augurandogli di continuare a parlare attraverso ciò che cucina.
D: Come nasce la tua passione per la cucina?
R: I miei genitori hanno un ristorante a Gaeta, sulla spiaggia di Serapo, il Cycas. Per questo posso dire che la cucina sia stata da sempre un ambiente familiare, accogliente, “mio” insomma. Ricordo ancora che da piccolo – avrò avuto 6 anni – mi nascondevo durante i servizi serali sotto il banco da lavoro in cucina, sbirciando da lì sotto mio zio che cucinava e tutto quel rumoroso via vai di pentole e piatti. Credo che sia stato quello il mio primo atavico incontro con la cucina, il primo di cui abbia memoria almeno. Ho cominciato a cucinare davvero solo molto tempo dopo, a 18 anni, quando da fuorisede a Roma ho capito che dovevo darmi da fare con le mie mani per mangiare bene e non soltanto sopravvivere. Per questo motivo, vicino alla cucina filosofica, ho sempre coltivato il sogno di un «Manuale di cucina universitaria». Ed in effetti qualche ricetta l’ho pure scritta, come i «Bucatini del fuorisede» ad esempio.
D: Come descriveresti la cucina con la quale sei cresciuto? Ci sono piatti ai quali sei più legato?
R: Essendo il nostro un ristorante di pesce, chiunque penserà che ne abbia mangiato sempre molto. Ed invece per un lungo periodo della mia vita, tra i 6 e i 15 anni circa, non potevo proprio vederlo. Sarà stata colpa di mia madre, che me ne ha fatto mangiare davvero tanto, forse perché voleva farmi diventare intelligente con tutto quel fosforo – che poi chissà se è vero che funzioni così! I piatti a cui sono legato sono quelli della tradizione gaetana e familiare, dalla Tiella di scarola alla Votapiatto e ai Canisconi, passando per la pasta e patate con le scorze di parmigiano.
D: Da cosa nasce l’idea di partecipare a Masterchef?
R: Mia sorella Alessia e la mia migliore amica Costanza mi hanno iscritto di nascosto. Ogni giovedì ci incontravamo con tutti gli altri amici per vedere il programma, ora a Roma, ora a Gaeta e poi infine a Venezia, dove ho abitato per 9 mesi. In quelle occasioni si parlava spesso di cosa avremmo fatto al posto dei concorrenti. Alla fine mi ci sono ritrovato davvero al loro posto! (Qui i dettagli)
D: Qual è il momento più bello che hai vissuto durante questa esperienza?
R: Credo l’esterna in Sardegna. A dir la verità il montaggio non rende abbastanza la vera tensione che si respirava lì ad Orgosolo; è stata davvero un’esperienza magica, per tutti, anche per chi ha perso.
D: Grazie a te a Masterchef si è introdotto il tema della filosofia. Come è stato nella vita e all’interno di questo programma coniugare questi due ambiti così differenti tra loro?
R: Estremamente drammatico, ma purtroppo non posso addentrarmi in questo discorso, almeno non in questa sede…
D: Come credi sia cambiata la tua vita dopo l’esperienza televisiva?
R: Da un punto di vista economico-lavorativo, il cambiamento è pari a zero. Del resto, da questo punto di vista io non faccio testo: non ho infatti mai pensato di voler fare il cuoco né questa esperienza mi ha mai fatto cambiare idea. L’ho sempre detto esplicitamente agli autori: non mi interessa arrivare fino in fondo ad ogni costo, non voglio perdere la faccia, sono qui perché voglio divertirmi e trasmettere l’amore per la filosofia ad un pubblico «a digiuno» di filosofia. Insomma, solo in pochi riescono a cambiare la propria vita partecipando a MasterChef. Questo lo dico come memorandum, per tutti quelli che sperano di fare “carriera” attraverso un semplice programma per cuochi amatoriali. Ci vuole bravura, applicazione, studio, dedizione e, soprattutto, tanta fortuna: di fronte ai pochi che ci riescono bisogna togliersi il cappello. Ma per la maggior parte dei concorrenti, al di là di una certa visibilità che forse non guasta, non c’è molto altro, se non dei bei ricordi e i legami che si sono creati grazie a quella esperienza. Prima dell’inizio della sesta stagione mi sono ripromesso di scrivere qualcosa a riguardo, e lo farò, ad un anno di distanza da quella esperienza.
D: Ti piacerebbe un giorno ripetere l’esperienza televisiva? In che programma ti vedresti bene?
R: Non so, di certo non in un talent show. Mi piacerebbe piuttosto poter avere uno spazio diverso, realmente interessato alla cultura. Ma credo che in Italia, a parte qualche rara eccezione, simili spazi non esistano. La televisione è secondo me il ricettacolo di tutti i nostri italianissimi mali, lo specchio in cui ammiriamo compiaciuti la nostra volgare ignoranza.
D: Quali sono le dottrine filosofiche che cerchi di applicare anche nella vita reale o che comunque ti sono state di ispirazione? R: Le poche etichette filosofiche che riesco ad affibbiarmi sono forse le seguenti: ateo, laico e liberale. Ma queste parole vogliono dire tutto e il contrario di tutto, visto che ognuno gli attribuisce un significato diverso. E quindi io sono ateo soltanto nella misura in cui vivo senza Dio, non perché sappia con certezza che Dio non esiste. I malintesi in questi casi sono sempre dietro l’angolo. Una volta, ad esempio, ero a casa di una mia amica. Parlavamo di politica. Quando mi chiese come la pensassi, io le risposi: «credo di essere un liberale». Lei mi cacciò di casa, letteralmente. Ad ogni modo, i miei autori preferiti sono Camus, Nietzsche, Kant (riletto in un certo modo), Cioran, Feuerbach, Schopenhauer, ma anche moltissimi altri.
D: Come descriveresti invece la tua “filosofia di cucina”?
R: Era un’intuizione giusta, originale, inedita, e so che avrebbe meritato di più, se soltanto avessi insistito nei canali giusti. Adesso mi mancano le forze per portarla avanti, ma un giorno, se una casa editrice si facesse avanti, ho già pronto un libro. Sarebbe bellissimo, per un ragazzo di liceo, studiare la filosofia cucinando (e poi mangiando). Sarebbe davvero un modo originale per avvicinarsi ad una materia che il più delle volte risulta indigesta, se non addirittura incommestibile. Io, al contrario, dentro e fuori MasterChef, parlo di «filosofia commestibile». Se siete curiosi sul mio sito ci sono vari articoli in cui parlo di questa idea di “philo-cuisine”.
D: Quali sono i tuoi futuri progetti?
R: Sto cercando di continuare la carriera accademica, inviando application in ogni parte del mondo, ma la situazione è tragica – in Italia più che altrove. Nel frattempo sto scrivendo un libro e sto partecipando a molte conferenze, soprattutto in Francia, anche se il 20 novembre sarò a Milano per un’importante giornata su Camus. Mi piacerebbe anche trovare il tempo per poter portare avanti il progetto musicale con LinFante, dopo il video de «La bella estate» abbiamo ancora 4/5 pezzi che vorremmo registrare, ma adesso non vivendo più a Roma è sempre più difficile vedersi. Insomma, sto provando in tutti i modi di portare avanti il mio sogno di diventare professore e/o scrittore, ma per il momento non posso realizzare né l’una né l’altra cosa. Per ora non demordo, ma per quanto ancora potrò farcela?
Ringraziamo Giovanni Gaetani per la sua collaborazione e per il tempo che ci ha donato, augurandogli di continuare a parlare attraverso ciò che cucina.
Recensione a cura di Stefania Meneghella
Intervista realizzata da Manuela Ratti
Pubblicazione a cura di Roberta Giancaspro