Fabrizio Falconi ha nuovamente aperto le porte delle librerie italiane con il nuovo romanzo “Il dono perfetto” (Santelli Editore).
La storia racconta di Nina, una giovane – e bellissima – donna che vive un matrimonio “in bianco”, mettendosi così a riparo da tutti i suoi pretendenti. Le sue vicende sono ispirate alla vita di Juliette Récamier, conosciuta nella prima metà dell’Ottocento come “la più bella donna di Francia“. Un romanzo semplice, profondo, significativo che diventa spesso uno specchio in cui il lettore guarda sé stesso, per ritrovarsi tra quelle pagine. L’autore – che è stato in passato caporedattore dell’agenzia News Mediaset e di TGCom 24 – riesce a catturare l’attenzione di chi legge e a farlo diventare suo complice, in una storia che non ha né spazio né tempo, ma che semplicemente è.
Hai lavorato per numerose testate giornalistiche e hai all’attivo diverse pubblicazioni, ma quando è nata questa passione per la scrittura? Come ti sei approcciato al giornalismo?
Faccio riferimento a James Hillman, l’autore de Il Codice dell’Anima, che racconta e che parla esattamente di questo, del talento individuale che ognuno di noi ha. La cosa più difficile è individuare questo talento e ascoltarci interiormente. Nel mio caso, questa vocazione è stata subito evidente. Già quando ero ragazzino, ho infatti iniziato a scrivere e questa passione è andata avanti negli anni, rafforzandosi con la lettura. Ho fatto studi giuridici ma avevo già individuato la mia strada dato che, mentre frequentavo l’Università, avevo iniziato a lavorare come freelance nelle radio private e nei giornali. Dopo la laurea, ho così fatto il giornalista a tempo pieno.
La tua scrittura spazia in diverse tematiche come la spiritualità, la poesia, la conoscenza. C’è un argomento che predilige più di altri?
Io sono molto legato a Roma, la mia città, e ho iniziato a studiare questa città per miei interessi personali. Alla fine ho pubblicato diversi libri su Roma che, in un modo o nell’altro, entra sempre nei miei scritti.
Parliamo del tuo nuovo libro Il dono perfetto: dove nasce l’idea per questo romanzo?
L’ho scritto durante l’anno della pandemia che è stato un anno silenzioso, strano, surreale. In quel periodo mi ero imbattuto su dei libri che riguardavano il periodo napoleonico e i grandi amori letterari nella Francia di Napoleone. Ho letto un libro molto bello che è scritto da uno studioso americano, Dan Hofstadter, intitolato “La storia d’amore come opera d’arte”. Ho inoltre approfondito il personaggio di Juliette Récamier, che è vissuta a cavallo tra il ‘700 e l’800, e mi ha molto incuriosito. Mi sono appassionato alla sua storia individuale e ho così voluto scriverla attualizzandola, cambiando nomi e circostanze.
L’incipit del suo libro mi ha molto colpito: “Le cose che potrebbero essere state, e non sono state, sono infinitamente più interessanti delle cose che sono e che sono state”. Secondo te, quale magia è contenuta in ciò che non è ancora accaduto?
C’è tanta magia. Le cose che sono accadute non possiamo riaverle indietro. Quelle che non sono accadute, e che potrebbero essere accadute, sono nella spazio e nella fantasia della casualità. La frase va focalizzata sulla psicologia di Juliette, nella sua scelta di preservare la verginità e il suo dono perfetto. Lei si muove nello spazio delle possibilità con tutti gli uomini che incontra. Anche Nina è una donna bellissima, intelligente, affascinante. Ha molti corteggiatori, e il fatto di non andare mai fino in fondo le permette di continuare a muoversi nell’ambito delle possibilità.
La protagonista è Nina, una donna che ha un grande impatto sul lettore. Com’è stato costruire il suo personaggio?
Nina è molto ispirata al carattere di Juliette: non volevo creare un personaggio del tutto empatico e non volevo che il lettore fosse subito conquistato da lei o che si immedesimasse in tutto. Volevo che ci fosse più distanza da parte del lettore, nell’avvicinarsi a una donna che fa scelte strane e provocatorie. Volevo che non fosse un personaggio sin da subito: Nina ha degli elementi che sicuramente la rendono molto austera, e mantiene sempre una distanza nei confronti dei suoi amanti e di suo marito. Si sposa molto presto, ma con questa condizione di avere un matrimonio bianco. E’ insomma una scelta molto particolare che rappresenta anche una grande sfida: attualizzare questa storia significa renderla ancora più estrema, soprattutto perché è ambientata nell’epoca della massima libertà femminile. Il fatto che una donna, in quel momento, facesse una cosa scelta così anticonformista mi sembrava ancora più estremo.
Come ti sei approcciato a questo genere letterario? Chi sono stati i suoi maestri letterari?
Non ho pensato a uno stile particolare, non volevo fare un romanzo storico. Lo stile che ho scelto è uno stile molto chiaro, e ho voluto renderlo più diretto possibile in modo tale che il lettore ci si possa avvicinare senza problemi. Ho cercato di lavorare sulle psicologie dei personaggi, e ho lasciato la storia andare perché è una storia bella da raccontare.
Futuri progetti?
Ho sempre portata avanti sia la saggistica che la narrativa: sono due binari paralleli, ma li ho sempre perseguiti entrambi. Il prossimo libro sarà di saggistica e stavolta ho scelto una storia che sembra romanzata: mi sono infatti concentrato sugli ultimi due anni (’69 e ’70) prima dello scioglimento dei Beatles. Queste ultime loro fasi coincidono con degli eventi drammatici come la strage di Bel Air che è stata compiuto da Charlie Menson e dalla sua Famiglia. Entrarono in una villa di Los Angeles di notte e uccisero cinque persone. Parlo di questo perché Manson raccontò nel processo che lui si era ispirato ad alcune canzoni dei Beatles e che aveva interpretato a suo modo alcuni loro testi.
Ho così ricostruito questi due anni, quando si rompe l’illusione di quel decennio – gli anni ’60 – che era il periodo dell’amore libero, dell’utopia di un mondo felice. Con la fine di quel decennio, c’è invece il brusco risveglio nella realtà. Nel libro Il Codice dell’Anima di James Hillman, c’è anche un capitolo dedicato a Manson dove si spiega che tutti noi abbiamo un talento, ma non esiste solo quello positivo, bensì anche quello negativo. Hillman riporta alcuni esempi, tra cui proprio Manson, indagando il suo talento negativo, la sua vocazione al male, spiegabile solo parzialmente con i traumi subiti durante la sua infanzia.