Facebook: Ernesto Valerio
Il passato è un come un campo da cui è difficile fuggire; ci perseguita, a volte, e ci ossessione.
Altre volte, ci tende la mano e ci traccia la strada per un futuro migliore.
Il passato ha tante immense sfaccettature, tanti piccoli tasselli di eternità che fanno di un attimo un elemento, spesso, da cui ripartire.
Al centro della storia c’è il passato, appunto. Un passato diverso, un passato legato ad oggetti anziché a persone. Oggetti usati, abbandonati, rivenduti, e poi ancora utilizzati; oggetti che hanno una storia. L’autore riesce infatti a tuffarsi completamente nel mondo di questi oggetti, nelle loro più segrete biografie, nella più assoluta consapevolezza che anche le “cose” hanno un’anima”. Ma un’anima bella, un’anima che solo le persone “vere” sono in grado di percepire.
Occorre dunque rianimarle, far rifiorire in loro quella storia che li ha sempre resi importanti, scavare nel loro “io” più profondo, ed essere loro amico.
Proprio come fa Elio Toso, il protagonista di un romanzo che non è solo “riscoperta del passato”, ma è soprattutto amore. Amore verso ciò che è stato, verso ciò che apparentemente non potrà ritornare ma anche verso ciò che può ripresentarsi sotto una luce diversa, verso ciò che non muore mai.
Il tutto è scritto con un linguaggio semplice che, quasi come una piuma, si posa sullo sguardo del lettore e lo costringe a restare lì, tra quelle pagine, mentre il mondo esterno scorre: con i suoi oggetti, con le sue pretese, con il suo modo di essere indifferente a ciò che esiste.
C’è una particolare convinzione che resterà dopo la lettura di “Due volte a settimana”, o che almeno è restata a me. Ogni oggetto che ha fatto parte della nostra vita, che ci ha resi quello che siamo stati, non può svanire improvvisamente, e spetta a noi il compito più arduo: resistere a ciò che muore e farlo divenire vita, ancora.
Lascio la parola a Ernesto Valerio, con l’augurio più grande di proseguire in questo meraviglioso percorso.
D: Come nasce l’idea per “Due volte a settimana”?
R: Scrivendo un racconto che aveva una base ed un’idea autonoma e che è diventato, poi, un capitolo del romanzo. Ho scritto le pagine che si sono poi “trasformate” nel capitolo 10; Elio (il protagonista) era lì ma non come attore principale. Rileggendo e sistemando quelle righe, mi sono reso conto che non volevo raccontare quella storia o solo quella storia, ma volevo altro. Volevo la vita di Elio. E così ho iniziato a costruire la sua biografia, il suo passato, le sue idee. Mi sono raccontato ciò che era, che sognava, che pensava. Ed ho iniziato a scriverne poi la storia “nel momento”, cioè quella che è diventata poi il romanzo.
D: Come definiresti il protagonista del tuo romanzo Elio Toso? Che legami ci sono tra te e lui?
R: Come biografia siamo lontani, ma abbiamo una comunanza di idee, di valori, di etica. Anche di vizi, in un certo qual modo, e qualche pregio sicuramente. È un personaggio che mi farei amico, se ci fosse nella vita reale. E credo che anche lui mi troverebbe vicino. Uno con cui farei volentieri un viaggio insieme, di quelli lunghi e silenziosi, senza forzarsi nel parlare ma cercando di capirsi con le piccole scelte quotidiane condivise. Anche nei miei (tanti) racconti (pubblicati e non), non ho mai attinto molto alla mia biografia: sono uno scrittore-ladro, rubo dalle vite altrui, da ciò che vedo e ascolto, o leggo, ma pochissimo da me. Non perché abbia avuto una vita piatta o priva di emozioni, anzi, ma ho sempre declinato la vocazione dello scrittore autobiografico.
D: C’è una scena particolare che ti ha emozionato maggiormente scrivere?
R: Sì, quella del trench e dei bottoni. Perché non aveva basi reali nella mia biografia, e l’ho creata come se avessi voluto viverla davvero. Ho immaginato come ne sarei stato felice, emozionato, vivo. E l’ho messa giù con una piacevole tachicardia.
D: Da dove hai attinto l’ispirazione per l’ambientazione della storia?
R: Dal mondo che vivo e viviamo, tutti i giorni. Dalle persone che incontro nel mio muovermi quotidianamente, da ciò che leggo dai giornali e da quello che ascolto nelle strade. È realmente quello che c’è intorno a noi più che a me perché, ripeto, l’intento autobiografico è ridotto ai minimi termini.
D: Che significato hanno per te gli oggetti usati, e soprattutto qual è il significato che hanno all’interno della storia?
R: Nella storia sono centrali, gira tutto intorno a loro e alle persone che li hanno vissuti, presi, buttati via, regalati, rivenduti. Come hanno le biografie gli esseri umani, così ne hanno gli oggetti: tutti, indistintamente. E come ho rispetto delle persone, così ne ho per gli oggetti e per la loro storia. Perché è stato comprato? Perché messo via? E chi li prende o ricompra dopo ha la responsabilità di rimetterli in vita. Di far ripartire una nuova biografia, ridargli uno scopo ed una finalità nel mondo: in questo, cosa c’è di diverso dal “recuperare” un essere umano? Un amico, una compagna, un padre o una madre? Gira sempre tutto intorno agli stessi, splendidi, concetti: amore, rispetto, affetto, responsabilità. E, ovviamente, malinconia e nostalgia per ciò che è stato e non tornerà più.
D: C’è un personaggio a cui sei legato particolarmente, e perché?
R: Forse al padre di Elio, Angelo, perché sono padre anche io (seppur da poco, della mia Greta Vittoria che compie tra pochi giorni tre anni) e mi piacerebbe poter un giorno dire, in età avanzata, di essere stato un buon padre come è stato lui. Provo un po’ di invidia per la sua figura, per il suo saper fare e saperci essere, da padre e da compagno di vita per la donna amata. È il personaggio cui mi sento più di tendere in ottica futura, pur consapevole di quanto sarà difficile.
D: Che sensazione hai provato quando hai scritto l’ultima pagina e hai compreso che il tuo primo romanzo era finalmente terminato?
R: Uno strano senso di vuoto euforico. Difficile da spiegare se non attraverso una sensorialità completa: senti “qualcosa” su tutto il corpo, su tutti e cinque i sensi. E sono tutti coinvolti l’uno con l’altro, “scambiandosi” le percezioni e le sensazioni. Posso dire che col senno di poi, è una delle emozioni più importanti (non automaticamente più “belle”, nel senso pieno del termine) mai provate.
D: Che sensazione vorresti trasmettere al lettore?
R: Non ci ho mai pensato, non perché non abbia mai ragionato su cosa possa sentire o provare una persona nel leggerlo, anzi: lo faccio spesso, cercando di capire o di captare cosa e come ha provato il lettore nel leggere e terminare il libro. Ma non mi sono mai posto preventivamente la domanda, solo dopo. E in questo “dopo”, posso solo sperare ciò che scrivo spesso nelle dediche: che possa trovarci qualcosa di suo, dentro, che aveva smarrito o messo da parte, perché ritrovare le cose (o prenderne da altri, facendole proprie) è un atto bellissimo di responsabilità verso il mondo intero.
D: Quali sono i tuoi futuri progetti in merito alla promozione del tuo romanzo?
R: Grazie allo straordinario lavoro di Pixie Promotion, il libro sta girando e respirando moltissimo, in tutta Italia. Siamo alla terza ristampa e dopo aver già toccato Roma, Bologna, Lanciano, Pescara e tutto il territorio mantovano (dove vivo da dieci anni), ora andremo anche a Firenze e Milano, con già “in pancia” Torino e nuovamente Roma. Un bel giro direi, come quelli che fa Elio di cantina in cantina, di soffitta in soffitta, di casa in casa. Ecco, già se facessi i suoi chilometri potrei dirmi contento, a sorriso pieno.
Ringraziamo Ernesto Valerio per la sua collaborazione e per il tempo che ci ha donato, con l’augurio più grande di proseguire in questo meraviglioso percorso.
Recensione ed intervista a cura di Stefania Meneghella