Sono viva ad occhi aperti
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Ad occhi chiusi, si può scorgere l’infinito; ad occhi chiusi, il mondo appare migliore. Si
vede il mare, ad occhi chiusi. Si vedono i fiori, la vita racchiusa in una scatola chiamata
cuore. I colori sono più limpidi, il cielo diventa casa, gli occhi sanno guardare, e si ama
davvero. Si vive davvero.
Un angelo dorme, ad occhi chiusi: i suoi riccioli hanno lo stesso colore del Sole, i suoi
occhi sono come il mare che, infrangendosi contro le rocce della vita, sente sempre il
coraggio di ricominciare. Il mondo era troppo grande per un angelo come lei, il mondo
era troppo crudele, a volte. Così come gli specchi, che riempivano la sua casa di occhi
aperti e infranti, di sogni in cui non aveva più la forza di credere, di persone che
avevano avuto il potere di infrangere la sua vita. Era troppo grande il mondo per lei.
Non c’era via di uscita…
Nelle notti più cupe, l’angelo dagli occhi azzurri chiudeva gli occhi e sognava: sognava
la vita con sguardi diversi, persone con un amore oltre orizzonti, la bellezza nelle cose,
la bellezza nella vita. Poi… apriva gli occhi, e la realtà era proprio lì. Era proprio lì
davanti a lei, mentre si tramutava in specchio. Si guardava e non si riconosceva; tutto
era cambiato, mentre il mare negli occhi si infrangeva contro le rocce e non aveva la
forza di ricominciare.
La stanza era buia…
Il mondo era vuoto…
L’angelo era lì… era lì, seduta in un angolo della sua camera, mentre ogni cosa, ogni
pensiero, ogni emozione, ogni persona le ruotava intorno. La vita le ruotava attorno.
Non c’era via di uscita…
Come poteva un angelo diventare umano? Come poteva un angelo allontanarsi dal
mare che da sempre era stata la sua vera casa?
Fu così che l’angelo dagli occhi azzurri e dai riccioli biondi iniziò a scrivere… la sua
storia era impregnata sulla sua pelle, incisa sul cuore, cristallizzata nel tempo. Iniziò a
capire che doveva scrivere… doveva scrivere e basta. Per la prima volta, l’angelo
iniziò a conoscere la bellezza ad occhi aperti: la vedeva nelle parole che scorrevano
proprio dinnanzi ai suoi occhi, la vedeva in tutto ciò che era il suo passato e che, in
quel momento, si tramutava in realtà. Il mare continuava a infrangersi contro le rocce,
dentro di lei, ma per la prima volta avvertì la necessità di ricominciare.
L’angelo iniziò a nuotare nel dolore, lottando contro tutto e contro tutti, lottando contro
la persona che più aveva odiato nell’ultimo periodo: sé stessa.
Fu da quelle parole che nacque “Ana Bahebak” , oggi diventato libro. L’autrice di questa splendida opera è Elena Ventura, l’angelo del racconto. I suoi occhi sono azzurri come il mare che, infrangendosi contro le rocce, sente sempre la forza di ricominciare. Elena, dopo aver sofferto di anoressia, avverte il bisogno di diventare la persona che aveva sempre sognato di essere. Lo fa con parole semplici, lo fa con azioni istintive e spontanee, lo fa con il suo essere sé stessa. Lo fa amandosi. Il suo è un libro di una tenerezza unica, e ci dona la consapevolezza che nella vita si può essere mare sempre. Utilizzando uno stile del tutto nuovo e originale, Elena si rivolge a due destinatari: il ragazzo del racconto e il pubblico, unendo entrambi in un unico luogo: quelle pagine; parla al lettore come a un amico, in un linguaggio profondo e confidenziale, mostrandogli totalmente la sua anima colma di ferite e rinascite, la sua storia fatta di amori e sofferenze, brividi e delusioni, non perdendo l’occasione di inserire quel tocco poetico che rende il libro un vero capolavoro. E’ un libro spontaneo, fatto di semplicità e innocenza, in cui si scorge la sensibilità e la sincerità di una fanciulla che ha trovato il coraggio di continuare ad amare e a lottare. Si avverte quasi la sensazione di compiere un piccolo viaggio nella sua vita, in modo da conoscerla pienamente e comprenderla, diventare parte della sua storia. Sono pagine di diario scritte di sfuggita, quando la sua mano tremava e il suo cuore non reggeva; pagine interrotte e poi continuate quando gli occhi avvertivano la necessità di brillare ancora. Sono pagine trasparenti, in cui ci si può rifugiare per allontanarsi dalle mille maschere della società, dall’egoismo, dai cinismi, dalle ipocrisie.
Il libro di Elena è vita vera, è anima che rinasce, è il coraggio delle donne, è la luce che nasconde il buio, è il mare che ricomincia, è comprendere per la prima volta che si può essere vivi anche ad occhi aperti.
D: Quando è stato il momento in cui hai capito che ciò che avevi scritto come sfogo in un momento difficile potesse diventare alla portata di tutti, trasformandosi in libro?
R: Ho capito che quello che avevo scritto poteva diventare un libro la prima volta che mi sono rivolta al “lettore”. Sentivo la necessità di comunicare e sfogarmi con qualcuno di estraneo. Di poter donare la mia storia a qualcuno che avrebbe saputo farne tesoro. Volevo che le mie parole avessero un senso, uno scopo: aiutare gli altri. Come se volessi ristabilire una connessione con l’umanità che, in quel momento, mi sembrava aliena e lontana. Questo pensiero del libro, però, durante la stesura era un’utopia. Non sapevo nemmeno se l’avrei finito… Se ci sarei stata ancora. Quando ho visto le pagine accumularsi sempre di più, ho iniziato a crederci e sperarci veramente.
D: Ti ha aiutato la scrittura del libro per la tua rinascita fisica e psicologica?
R: La scrittura è stata essenziale per me. Sentivo un vortice di emozioni e pensieri dentro di me che, se non avessi tirato fuori nero su bianco, mi avrebbero fatto implodere. Per me era un vero e proprio bisogno, quasi fisico. Anche per fare ordine, per dare un senso a tutto quello che stavo vivendo. Vederlo lì, trasformato in parole, sembrava più chiaro. Volevo salvare, inoltre, i miei ricordi di più belli. Avevo paura che non li avrei rivissuti più… E che avrei dimenticato tutto, anche me stessa.
D: Nella tua opera, hai utilizzato uno stile del tutto innovativo e originale rivolgendoti a due soggetti in modo alternato: il ragazzo del racconto e il lettore. E’ stata una scelta predeterminata oppure qualcosa di assolutamente spontaneo?
R: Come ho detto nella prima domanda, avevo bisogno di rivolgermi a qualcuno di esterno al mondo, in coppia nel quale mi ero incastrata. Qualcuno che potesse capire. Credevo di più nel lettore che nel “lui” a cui mi riferivo. Infatti quel “lui” destinatario e (co-protagonista) non sa nulla del libro.
D: Il titolo del romanzo è rivolto solo al protagonista della storia, o anche e soprattutto a te stessa?
R: Il titolo è per me stessa. Significa “ti amo” in arabo. È anche il tatuaggio che ho sul polso sinistro. Riguarda l’amore in generale. Il mio passato più bello. I ricordi di quell’amore anche. Sul polso destro ho scritto “ti amo” in giapponese (koishiteru) ed è dedicato al futuro… A tutto ciò che verrà, anche il vero amore futuro.
D: Il libro è stato scritto in tempi diversi e si possono percepire tutte le fasi che ti hanno accompagnato in questo percorso. Chi o cosa ti ha dato il coraggio di giungere all’ultima fase, quella in cui hai scelto la bellezza della vita e delle persone?
R: Tante cose hanno influito a trasformare il mio pensiero da “odio la vita” a “amo la vita”. Le esperienze dolorose, il tormento vero ti portano a uno stato di limite in cui ti trovi a decidere se lasciarti andare o guardare di nuovo oltre. Io ho visto una briciola di bellezza e di speranza, e ho deciso di aggrapparmi a quella con i denti e con gli artigli. Nonostante fosse un rischio. Ne valeva la pena. Ne è valsa la pena.
D: Pensi che la scrittura sia sempre un buon modo per salvarsi? Cosa consigli a tutte le ragazze che stanno affrontando il tuo stesso problema?
R: Penso che la scrittura, come qualsiasi forma d’arte o passione, siano medicine fenomenali per chi soffre di problemi psicologici. Tendiamo molto a chiudere dentro di noi i nostri tormenti per paura del giudizio. Se li lasciamo dentro di noi, però, diventeranno veleno. È importante dunque dare sfogo. Non censurarsi, perché dobbiamo avere fiducia nelle persone. Tutte, tutte sono un piccolo capolavoro. Il primo consiglio che voglio dare alle ragazze e ai ragazzi ( perché anche i maschi soffrono di DCA) è di aprirsi verso i propri cari, perché non c’è nulla di cui vergognarsi, è una malattia come le altre. Nascondereste mai ai vostri genitori di avere una polmonite? Poi, assolutamente, di contattare le associazioni e le strutture adeguate per farsi aiutare.Da soli non se ne esce.
D: Cosa vorresti che il lettore riuscisse a cogliere dalla tua storia personale?
R: vorrei che il lettore possa leggermi dentro, ed emozionarsi. Ormai la sensibilità è vista come un difetto più che un pregio. Io desidero far sorridere o piangere chi legge esattamente come l’ho fatto io. Tutti meritano di provare tali tumulti almeno una volta nella vita. O, più precisamente, che sappiano dell’esistenza di questa intensità di vivere, e della gravità di questa patologia. Non va sottovalutata, non è uno scherzo. È mortale, ma sì può guarire. Per qualunque problema, c’è sempre un’altra chance.
Recensione e intervista a cura di Stefania Meneghella