Andrea Ottavi è tra gli attori del nuovo film Flaminia di Michela Giraud, che ha già raggiunto un grande successo sul grande schermo.
Con alle spalle numerose esperienze in ambito cinematografico, tra cui anche un film di Saverio Costanzo, si è raccontato ai microfoni di Kosmo Magazine per parlare un po’ di sé. Un mondo, quello venuto fuori dall’attore, che è ancora in continua costruzione ma che ha già delle solide basi per diventare molto di più.
Come ti sei approcciato per la prima volta al mondo della recitazione?
Ho iniziato da giovane iscrivendomi a un’Agenzia di comparse e di figurazione. Ho partecipato allo spettacolo “Nessuno mi può giudicare” di Massimiliano Bruno, e da lì mi sono reso conto che il ruolo di comparsa mi andava un po’ stretto. Mi rendevo conto di essere molto curioso e di divertirmi molto. Così un mio amico mi ha consigliato un corso di teatro e, poco prima dei 18 anni, ho iniziato a studiare seriamente e mi è piaciuto molto. Ho quindi abbandonato l’Università quando mancavano 5 esami alla laurea, e sono riuscito a prendere un ruolo di uno spettacolo a Roma. La recitazione è per me una chiamata profonda perché ti permette di avere conoscenza di te stesso: recitare è un gioco, ma mi permette di scoprire sempre di più me stesso. È proprio questo che mi è piaciuto: la possibilità di vivere altre vite. Sarebbe bello dare vita a delle storie che ispirano, che possono far riflettere oltre. che intrattenere il pubblico.
Ti abbiamo conosciuto nel film Finalmente l’alba di Saverio Costanzo. Com’è stato prendere parte a questa pellicola e cosa ti ha insegnato più di tutto il regista?
È stata un’esperienza importante, che mi ha fatto render conto di molte cose. All’inizio non sapevo che nel cast ci fossero nomi così famosi. Il primo provino è stato fatto da casa e, successivamente, sono stato convocato per un call back. Sono così stato chiamato a ridosso delle riprese, ed è stato molto emozionante lavorare con Saverio e prendere parte a un progetto così grande. Con lui mi sono trovato molto bene: è un professionista che pretende molto dagli attori, e a me piace essere guidato durante le riprese. Scena per scena mi ha dato le giuste indicazioni e io mi sono sempre sentito protetto da questo.
Adesso sei nella commedia Flaminia di Michela Giraud. Cosa ci puoi dire del tuo personaggio? Quanto c’è di te in lui?
Di me in lui c’è la vena ironica, il sarcasmo. È un progetto che trovo molto coraggioso, anche perché ha portato sullo schermo la sua storia. Mirko – il mio personaggio – è un ragazzo problematico che vive in comunità con Ludovica, trascorre le giornate con lei alla ricerca della normalità. Mi sarebbe piaciuto avere più spazio.
Come sta andando il film? Quali erano le vostre aspettative iniziali e com’è adesso il riscontro del pubblico?
Leggendo molte recensioni, il riscontro è stato molto positivo, soprattutto perché è un film molto onesto. Questa onestà riesce a far ridere, ma fa anche riflettere e commuovere.
Com’è stato lavorare con Michela Giraud? Cosa ti ha trasmesso durante le riprese?
È stato molto veloce, però lei mi ha espressamente chiesto di non fare una “macchietta” di un ragazzo autistico. Ho provato ad approfondire la questione, ma è stato molto semplice. Non è stata molto presente, perché era alla sua prima esperienza da regista, quindi si è affidata molto agli attori.
Oltre alla recitazione, ti occupi anche di pittura. Pensi che questi due mondi possano combaciarsi tra di loro? Come riesci a conciliare le due attività?
La pittura mi permette di esplorare il mio animo su tela o su legno, faccio anche molte sculture di argilla. È una scoperta di me: mia madre è pittrice e sono molto anni che dipingo. Nei vari lavori vedo l’emozione e io sono riuscito a trovare un segno distintivo. Dipingo su tele molto grandi: ho bisogno di lavorare con tutto il corpo, oltre ai pennelli uso molto i bastoni delle scope o vari strumenti come lo scolapasta.
Futuri progetti?
Ho girato poche settimane fa un cortometraggio interessante del genere thriller – psicologico, diretto da Thomas Wagner, un ragazzo austriaco. È ambientato in una singola stanza e segue gli sforzi di un soldato in una tortura durante la quale non può vedere i colori. È una cosa poco vista in italia. Ora sto lavorando invece su “Conversazioni dopo un funerale”: è un dramma familiare che parla dell’incontro di questa famiglia il giorno del funerale del padre, e io sono uno dei tre fratelli. Fa vedere questo gioco di luci e ombre nei conflitti familiari, e verrà rappresentato al Teatro Parioli con la possibilità di una tournée il prossimo anno.