Al di là del confine
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Al di là del confine, al di là di quella linea che separa l’essenziale dall’urgente, c’è una realtà diversa, illusoria, spesso anche immaginaria. Una realtà che preferiamo non guardare, chiudendo gli occhi dinnanzi a ciò che è ovvio.
Le apparenze diventano quotidianità, e le strade sono solo tanti puntini che ci allontanano dalle mete che non riusciamo a raggiungere. È una realtà che preferiamo ignorare, ma che è lì, sempre, al di là del confine.
È proprio questa realtà la protagonista del nuovo romanzo dell’autore Alessandro Robecchi, “Torto Marcio” (Sellerio Editore). Una realtà fatta di contrasti sociali, di dimensioni che fingiamo di non conoscere. Il tutto, ambientato nella città di Milano, si concretizza nel personaggio di Carlo Monterossi, in cui il contrasto è radicato totalmente nei suoi stili di vita e in un lavoro che lui, in primis, detesta. Interessante è la tematica della televisione, vista come un tunnel commerciale da cui difficilmente si riesce ad uscire. Da qui, si susseguiranno, una serie di episodi che daranno alla città di Milano, e al mondo in generale, un volto diverso. Lo stile di Robecchi è uno stile semplice, ma è anche uno stile che lascia il segno come una macchia bianca su un abito rosso. Leggendo queste pagine, si respira aria di giustizia e il bisogno di conoscenza, di fuggire dai contrasti che ci investono l’anima.
Lascio la parola a lui, con l’augurio più grande di proseguire in questo meraviglioso percorso.
D: Spiegaci come nasce l’idea per questo romanzo
R: Non è facile dire come nasce una storia. Si costruisce un intreccio, lo si complica, lo si intreccia (appunto!) con altre storie, i caratteri dei personaggi si delineano nella vicenda… È un processo lento in cui tutti i tasselli devono andare al loro posto. Ma l’idea primigenia, la motivazione, nasce da una domanda: è ancora possibile parlare di giustizia? Quanto è distante quella che chiamiamo giustizia, dal nostro senso della giustizia, se ancora l’abbiamo?
D: Un elemento che si evince particolarmente tra le tue pagine è la tematica delle disuguaglianze sociali in una città che apparentemente sembra essere “ordinaria”. Il tuo obiettivo principale era proprio evidenziare questa realtà che spesso è una realtà sconosciuta?
R: La storia si svolge a Milano, anche se il discorso, chiamiamolo così, è generale. Milano è una città spesso raccontata in modo monodimensionale: design, moda, alti redditi, eccetera eccetera. È una narrazione strabica, a cui si aggiungono stupidaggini ideologiche (l’esempio per il Paese, la capitale morale…). Ma dietro i lustrini e le belle vetrine c’è anche una realtà diversa, le diseguaglianze crescono invece di diminuire, la distanza tra centro e periferie – poche centinaia di metri in linea d’aria – è siderale, e le differenze di classe (uso appositamente questa parola così novecentesca) stanno quasi diventando differenze antropologiche. Ecco, quella parte di Milano che non partecipa alla festa, che ne è tenuta fuori, non viene raccontata quasi mai, eppure esiste, è viva. Credo che raccontarla, anche con un noir, anche con una storia di fantasia, sia un fatto di giustizia.
D: Interessante è l’analisi psicologica del protagonista Carlo Montessori, autore televisivo di una trasmissione trash. Spiegaci brevemente il suo personaggio. Ci sono degli aspetti di lui nel quale ti riconosci?
R: Carlo Monterossi è un uomo perbene, ma, forse proprio per quello, non contento di sé. Fa un lavoro (autore appunto di una di quelle orribili trasmissioni del dolore, del cinismo, della lacrima facile) che gli dà ricchezza e considerazione sociale, ma che lui detesta… Contiene del blues, ecco, la sua cifra è una strana malinconia da bon vivant e gli piace l’idea di raddrizzare i torti, quando li vede. Il rapporto tra un personaggio e chi lo crea è complicato, non è facile dire quanto di me c’è in Monterossi. Non c’è nulla di autobiografico, ovviamente, ma direi che io gli “presto” delle cose mie. Per esempio la capacità di vedere assurdità che altri non vedono e di saper usare l’ironia, di cogliere il paradosso. Insomma, né lui né io siamo contenti di come va il mondo, ma spero e confido ce ne siano in giro altri…
D: L’inserimento della televisione, come qualcosa di cui vergognarsi, tra i temi cardine del tuo romanzo, è una scelta voluta o del tutto impulsiva?
R: Ovviamente è una scelta. La televisione commerciale (ma ormai, quale televisione non è commerciale?) è il luogo principe del più assoluto cinismo. Ne conosco i meccanismi, ne so cogliere le assurdità. Mi piaceva immergere un personaggio non cinico in un ambiente cinico al massimo grado. È una sfasatura, uno degli elementi che contribuiscono a dare al Monterossi la sua sfumatura blues. E poi la tivù è un modo distorto di leggere e mostrare la società; Carlo lo sa, eppure ne è complice, questa contraddizione lo rende moderatamente infelice e dunque problematico…
D: Qual è il legame che metti più in evidenza tra i tre luoghi di Milano che descrivi: la casa di Carlo Monterossi, il quartiere malfamato attorno a San Siro e la questura?
R: Milano è una città piccola, quelle differenze stanno tutte nello stesso posto, convivono gomito a gomito. La buona borghesia, i poliziotti, il proletariato emarginato delle periferie, sono ambienti diversissimi tra loro eppure in qualche modo comunicanti. Il legame sono le vite, le storie; non faccio il sociologo, non parlo per gradi concetti. Quello che mi interessa è la vita delle persone, dai protagonisti ai personaggi minori. Ognuno vede la curvatura del suo destino.
D: Cosa speri di trasmettere al lettore attraverso le tue pagine?
R: Domanda difficile. Vorrei che il lettore si godesse la lettura, che seguisse la storia con partecipazione, e anche con la curiosità con cui si leggono i gialli… come andrà a finire? Perché ora succede questo? Ma quello che mi interessa davvero è che si capisca il discorso di fondo: ogni vita ha le sue zone d’ombra. Una vicenda nera, con il Delitto, il Bene, il Male le mette in evidenza, ma vorrei anche che si capisse che non tutto è così facile, che i cattivi a volte hanno i loro motivi per essere cattivi e i cosiddetti buoni non sono sempre buonissimi.
D: Quali sono i tuoi futuri progetti in merito alla promozione di “Torto marcio”?
R: Sulla promozione non saprei, vado dove mi invitano se ho tempo e se lo ritengo interessante. In generale mi piace parlare con i lettori, trovo che guardarli in faccia, sentire come hanno letto la tua storia e come l’hanno capita sia molto importante… si crea una specie di… boh, comunità. Si scrive per chi legge, non per sé stessi, e chi legge spesso coglie sfumature interessanti.
Ringrazio Alessandro Robecchi per la sua collaborazione e per il tempo che mi ha donato, augurandogli di continuare a sorprenderci e a sorprendersi.
Recensione e intervista a cura di Stefania Meneghella